Sei condanne, con pene fino a 6 anni di carcere. Sono queste le richieste formulate dalla procura di Taranto per gli imputati nel processo per la morte di Alessandro Morricella, l’operaio dell’Ilva di Taranto morto il 12 giugno 2015 a causa di un incidente nel reparto Afo2 avvenuto quattro giorni prima. Al termine della requisitoria il pubblico ministero Francesco Ciardo ha chiesto la condanna a 6 anni per Massimo Rosini, ex direttore generale, e Ruggiero Cola, all’epoca direttore dello stabilimento. Pene alte – cinque anni – sono state prospettate anche per il capo area Salvatore Rizzo e Vito Vitale, direttore dell’area Ghisa, mentre per Saverio Campidoglio e Domenico Catucci, rispettivamente capo turno e tecnico del campo di colata, il pm ha proposto una pena di 3 anni. Tutti rispondono di omicidio colposo in concorso e omissione delle cautele sul lavoro. Richiesta anche la condanna di Ilva in as, quale responsabile civile.

Morricella, nato a Martina Franca, aveva 35 anni il giorno dell’incidente: il giovane lavoratore si era avvicinato al foro di colata dell’altoforno 2 per effettuare i prelievi finalizzati al controllo della temperatura della ghisa, ma invece della lenta fuoriuscita del materiale che scorre in un canale apposito, venne improvvisamente colpito da una fiammata di materiale liquido. Dopo un’agonia durata quattro giorni, Morricella si spense a causa delle ustioni di secondo e terzo grado sul 90% del corpo. Dalla sua morte scaturì il sequestro l’altoforno 2, per il quale si arrivò davanti a una pronuncia della Corte Costituzionale perché il governo Renzi l’aveva subito dissequestrato per decreto. Una decisione che la Consulta dichiarò illegittima.

Dopo l’incidente mortale la procura mise i sigilli all’impianto perché privo dei dispositivi di sicurezza: un sequestro quindi motivato non da problemi legati all’inquinamento, ma alla sicurezza degli operai. Per la pm Antonella De Luca, all’epoca titolare del fascicolo, i dirigenti dell’allora Ilva “omettevano di collocare e far collocare impianti, apparecchi e segnali atti a prevenire infortuni sul lavoro” e in particolare contestava l’assenza di protezioni “idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori presso l’Altoforno 2, nonché di qualunque altro strumento atto a garantire la sicurezza in caso di proiezioni di materiale incandescente dalla bocca di colata dell’altoforno nonché idonee strumentazioni volte al prelievo della ghisa per la misurazione della temperatura tali da limitare o garantire la relativa operazione che allo stato veniva svolta a distanza ravvicinata”.

Il magistrato all’epoca evidenziò anche “l’assenza di qualsivoglia barriera protettiva idonea a scongiurare eventi lesivi” che quindi, insieme alle altre condotte omissive avrebbero contribuito a determinare “la realizzazione dell’infortunio mortale” di Morricella. Ma in quel periodo delicato, l’Altoforno 2 era l’unica linea in grado di garantire la produzione dell’Ilva: bloccare l’Afo2 significare bloccare l’Ilva. E così il governo, guidato allora da Matteo Renzi, neutralizzò l’azione della magistratura con un decreto che permetteva all’azienda di continuare a utilizzare l’impianto nonostante il rischio per gli operai. Una vicenda alla quale mise fine la Consulta, sentenziando che quel provvedimento era incostituzionale poiché “trascurò tutela della vita privilegiando l’attività produttiva”.

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