Chiunque mi segua su queste pagine sa come sia mia consuetudine dare spazio a iniziative di giovani artisti e operatori culturali, soprattutto quando non si limitano a pubblicare le proprie opere ma creano momenti di aggregazione collettiva, comunità itineranti, piccoli mondi poetici. In passato vi ho parlato del pluripremiato autore Giorgiomaria Cornelio e dell’associazione Congerie, motori del bellissimo festival poetico “I Fumi della Fornace” a Valle Cascia, come di Ludovico Cantisani, vulcanico saggista in prima linea nell’organizzazione del Festival del Cinema Balcanico a Roma.

Scoprendo e frequentando queste scene è sorta spontaneamente un’amicizia, foriera di collaborazioni e progetti comuni, con i loro protagonisti.

Un’altra figura che ha da tempo colpito la mia attenzione è Danilo Paris, versatile attore e agitatore culturale, dai molteplici interessi (recentemente in tour proprio nei Balcani con gli spettacoli John Lennon’ s Images e Leonardo andati in scena al Lisinski di Zagabria e al teatro Sartre di Sarajevo, per la regia di Kevin Arduini), la cui attività è in qualche modo in continuità ideale con le esperienze già raccontate. Paris, infatti, è direttore e, con l’associazione Materia Creativa, ispiratore del Festival dell’Arte Nomadica, giunto alla terza edizione, a Ferentino, in provincia di Frosinone (con l’aiuto seminale in fase di gestazione di Giuseppe Cellitti, Giammarco Pizzutelli, Mara Pennacchia e Luca Cialone).

L’idea iniziale è quella di portare una nuova realtà culturale dove non c’è, a partire dal luogo dove si abita. Il riferimento all’arte nomadica, a partire dall’espressione di Gilles Deleuze “abitare in un deserto”, scaturisce proprio dalla “realtà desertica”, dal punto di vista culturale, del paesino nella Valle del Sacco.

A differenza di grandi città come Roma, Milano o Bologna, approdi per tutti i ricercatori culturali, in un piccolo paese del Frusinate non c’è possibilità di avere contatti diretti con cinema, accademie o università. L’idea del Festival è però antitetica alla retorica del “piccolo paese che ce la fa”, ma (proprio come un comandamento di Carmelo Bene, amico e sodale di Deleuze), quella di divenire“un deserto che parla a un altro deserto”, in dialogo con altre realtà desertiche e oppresse. Un “nodo di scambio nomadico” con l’intento di aprire il senso di tolleranza, ulteriormente pregiudicato nel periodo di genesi del festival, l’isolamento da Covid, che ha ulteriormente inasprito l’individualismo e il sospetto verso l’altro.

Un festival che si articola non solo in presentazioni o incontri (teatrali, ludici, cinematografici, letterari), ma in vere e proprie sarabande e “transumananze”, seguendo un percorso di rimappatura dei luoghi “desertici” originali. Nuove mappe immaginarie create dai singoli autori ospiti, secondo il concetto di “endosimbiosi”, non seguendo una regia piramidale dall’alto, ma in un rapporto sistemico e simbiotico; gli autori “nomadi” riformulano i significati dei luoghi visitati. Ecco per esempio S. Lucia a Ferentino rivivere, nell’immaginazione poetica, come il sito archeologico di Göbekli Tepe in Turchia.

Nel festival è importante il rapporto con le cartografie, per “tracciare nuove linee di fuga immaginarie”, “nuove mitopoiesi”, risignificando le geografie sepolte sotto la presente: una “mappatura memoriale” in risposta al “clima di sradicatezza” del periodo delle quarantene. Per questo il concetto di transumananza coinvolge pubblico, autori e attori senza quarta parete: una “macchina di sradicamento” che fa immedesimare le tre parti in una comunità in cammino verso le “Arche”, le mostre artistiche, in luoghi reimmaginati, ri-significati poeticamente.

Una grande opera di trasmutazione alchemica di luoghi carichi di storia, che ha creato sinergie reali nel presente tra intellettuali di tutta Italia (autori come Francesca Matteoni, Andrea Zandomeneghi e curatrici come Ilaria Monti e Nicola Nidito). Nelle parole del comunicato ufficiale della terza edizione, svoltasi a settembre: “Ri-mappare un paese, cioè ri-simbolizzarlo, creando nuove mitopoiesi, vuol dire dire costruire un mega-teatro della memoria all’aperto, pensare le strade come stanze in cui sono custoditi i ricordi di ognuno di noi. Un tentativo di elaborare il trauma collettivo (…) Uno sforzo di memoria, perché spazializzare vuol dire ricordare, fissare i punti dei nostri incontri che più che nel tempo, sono radicati nei luoghi.”.

Seguite e sostenete queste menti fervide e gravide di futuro.

Foto tratta dalla pagina Facebook del Festival

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