Abdel Fattah al-Sisi si è assicurato un terzo mandato come presidente dell’Egitto in un momento delicato per il Paese arabo che si trova in un contesto di forte tensione sociale e crisi economica, oltre alla guerra a Gaza che ha coinvolto il Cairo dal 7 ottobre. Secondo l’Autorità elettorale nazionale egiziana, al-Sisi ha ottenuto l’89,6% dei voti (circa 39 milioni) con un’affluenza alle urne che ha raggiunto il 66,8%, un’adesione “senza precedenti”, ha affermato il capo dell’autorità Hazem Badawy. Al-Sisi correva contro altri tre candidati, nessuno dei quali era di alto profilo. Il potenziale candidato più importante, l’ex parlamentare Ahmed al-Tantawi, ha concluso la sua corsa lamentandosi che la sua campagna era stata ostacolata e che decine di suoi sostenitori erano stati arrestati.

Non una novità, visto che al-Sisi, già nelle due tornate precedenti del 2014 e del 2018, aveva vinto con il 97% dei voti. Addirittura, nel 2018 l’ex capo dell’esercito aveva affrontato un solo avversario, lui stesso un ardente sostenitore di al-Sisi, dopo che il principale sfidante era stato arrestato e altri aspiranti si erano ritirati adducendo intimidazioni. Nel 2019 il presidente egiziano aveva modificato la Costituzione garantendosi la possibilità di candidarsi per un terzo mandato e adottando emendamenti che hanno inoltre esteso la durata del mandato presidenziale da quattro a sei anni, consentendogli quindi di rimanere in carica almeno fino al 2030.

Dopo il colpo di stato del 2013 al-Sisi ha quindi cancellato dal panorama politico egiziano ogni tipo di opposizione o dissenso al suo regime. Da allora i Fratelli Musulmani, che avevano eletto il presidente Mohamed Morsi due anni prima in quelle che sono state considerate le prime e uniche elezioni democratiche della storia egiziana, sono stati dichiarati un’organizzazione “terroristica”. Gruppi locali e internazionali per i diritti umani stimano poi che, da quando è entrato in carica, il regime di al-Sisi abbia tenuto dietro le sbarre fino a 60mila prigionieri politici. Solo da settembre 2020 a febbraio 2021, il New York Times stima che circa 4.500 persone si trovassero nel limbo della custodia cautelare. Il caso più noto in Italia è quello di Patrick Zaki, studente dell’Università di Bologna, detenuto il 7 febbraio 2020 per un articolo che raccontava le discriminazioni che lui e altri membri della minoranza cristiana copta egiziana affermavano di subire. Zaki era stato poi condannato il 18 luglio 2023 a 3 anni di carcere, ma il giorno successivo al-Sisi gli aveva concesso la grazia, ponendo fine al procedimento giudiziario.

Oltre alla repressione politica, l’Egitto si trova nel mezzo di una forte crisi economica, considerata la più acuta della sua storia recente. L’inflazione si aggira intorno al 40% dopo che la valuta locale, la sterlina egiziana, ha perso metà del suo valore dal marzo di quest’anno. Tutti i titoli sovrani in dollari dell’Egitto sono scesi, con la maggior parte degli scambi ai minimi da maggio. I titoli hanno poi subito un brusco calo lo scorso ottobre, dopo che l’agenzia di rating Moody’s ha declassato di un livello il rating creditizio del paese, da “BBB” a “CAA”, citando un peggioramento dell’accessibilità del debito del Paese. Sempre a ottobre due banche egiziane, la Arab African International Bank e la Arab International Bank, hanno sospeso l’uso delle carte di debito in sterline egiziane al di fuori del Paese per fermare il drenaggio di valuta estera. Secondo Al Jazeera, la decisione è stata presa dopo che un numero considerevole di titolari di carte di debito utilizzava le carte per effettuare acquisti in grandi quantità, spesso negli Emirati Arabi Uniti, di oro, telefoni cellulari e altri prodotti per trarre vantaggio dal basso tasso di cambio ufficiale della sterlina egiziana. Le transazioni con carta di debito vengono infatti addebitate al tasso ufficiale di circa 31 sterline per dollaro, mentre sul mercato nero un dollaro viene venduto per circa 40 sterline. L’Egitto ha mantenuto la sua valuta fissa rispetto al dollaro da marzo, nonostante il crescente divario con il tasso del mercato nero. Il Paese nordafricano ha subito poi un forte colpo nel febbraio del 2022 con lo scoppio della guerra in Ucraina. L’Egitto è infatti il maggiore importatore di grano al mondo, dipendendo quasi totalmente dalle importazioni da Russia (60% del totale) e Ucraina (22% del totale).

Per questi motivi, e soprattutto dallo scoppio della guerra a Gaza, il Fondo monetario internazionale sta “considerando seriamente” di aumentare i suoi prestiti all’Egitto. La direttrice generale del Fmi, Kristalina Georgieva, ha infatti spiegato a Reuters, a margine del summit della Cooperazione Economica Asia-Pacifico dello scorso novembre, che, oltre ad annientare l’economia di Gaza e devastare quella della Cisgiordania, la guerra sta anche creando difficoltà economiche ai Paesi vicini, tra cui Egitto, Libano e Giordania. La perdita del turismo e l’aumento dei costi energetici si sarebbero rivelati particolarmente difficili per questi paesi, ha affermato Georgieva. Il Fmi aveva già approvato un programma di prestiti da 3 miliardi di dollari (che ne avrebbe sbloccati altri 14 da partner internazionali) per l’Egitto nel dicembre 2022 ma, da quando l’accordo è stato raggiunto, le due revisioni previste dal Fmi affinché l’Egitto ricevesse il prestito sono state rinviate, congelando di fatto l’intero prestito. Oltre alla crisi economica l’Egitto di al-Sisi teme, come conseguenza della guerra a Gaza, anche lo sfollamento di palestinesi nella Penisola del Sinai. Secondo infatti quanto riporta il quotidiano arabo Al-Araby Al-Jadeed, alcuni funzionari egiziani ritengono che gli attacchi israeliani mirino a “spingere la popolazione gazawi dal sud della Striscia verso l’Egitto”. Israele ha assicurato al Cairo che i suoi attacchi nel sud prendono di mira solo Hamas, ma il monitoraggio degli attacchi da parte dello stato nordafricano finora suggerisce che Israele stia attaccando aree densamente abitate con lo scopo di costringere i civili ad avvicinarsi al confine. Sempre secondo Al-Araby Al-Jadeed, gli egiziani, temendo un afflusso di rifugiati, hanno già iniziato a erigere barriere lungo il confine con Gaza.

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