Le parole alla COP28 del ministro Pichetto Fratin (“sì al nucleare ma no a nuove centrali atomiche”) rendono ancora più surreale un dibattito che in Italia è stato sempre inquinato da ideologia.

Che cosa intende il ministro? Visto che un ritorno all’energia nucleare in Italia sarebbe di fatto impossibile in termini di costi e soprattutto tempi necessari per costruire una nuova centrale, e nell’attesa che arrivi (forse) la fusione nucleare, l’attuale governo punterebbe ai “piccoli reattori modulari”, una soluzione che però non esiste ancora nel mondo a livello commerciale.

Innanzitutto, ribadiamo per l’ennesima volta con dati alla mano che la produzione di energia nucleare in Italia non è mai stata significativa. Vediamo il grafico nella figura? Ecco, il totale della produzione da nucleare è rappresentato dalla virgolina rossa. Nel momento di massima espansione era appena il 5% del totale della produzione elettrica, ancora di meno di tutta l’energia. Al momento del referendum del 1987, delle quattro centrali italiane una era già inattiva (Garigliano) e altre due (Latina e Trino Vercellese) erano al termine della loro vita. L’unico reattore che avrebbe potuto produrre ancora per un numero considerevole di anni era quello di Caorso, avviato nel 1978. Nel mondo, il treno nucleare si era già fermato dopo l’incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island (senza vittime) del 1979, quando una banale pulizia di un filtro portò alla parziale fusione del nocciolo di quel reattore. Questo evento aveva dimostrato che, pur con tutti i controlli al limite del maniacale, le centrali nucleari non erano affatto sicure e affidabili. L’industria nucleare americana crollò dopo il 1979, tanto che oramai i loro reattori hanno una vita media di 44 anni e di solo due la costruzione è stata avviata dopo il 1979. Il professore di Harvard Charles Perrow, nel suo sempre attuale libro Normal Accidents (1984), spiega come eventi che “sembrano” estremamente improbabili invece accadano con una certa inattesa frequenza.

Perrow individua tre elementi che rendono probabile un “normal accident”: l’estrema complessità del sistema, l’interconnessione e il potenziale catastrofico. Gli incidenti di Chernobyl (1987) e Fukushima (2011) hanno confermato quanto detto sopra. Insomma, l’atomo si è sabotato da sé senza il bisogno di politici in cerca di consenso o ambientalisti estremisti.

Sempre nella figura, vediamo anche qual è la strada realistica per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili e le loro emissioni insostenibili in Italia: la curva marrone (elettricità prodotta da gas e carbone) è erosa ogni anno di più da eolico (curva verde) e fotovoltaico (curva gialla), mentre il carico base può essere garantito da idroelettrico (curva bianca), biocarburanti ed eventualmente scambi con l’estero (curva azzurra). Mentre in alcuni paesi il nucleare di grande taglia ha avuto una produzione significativa (Francia), i piccoli reattori non rappresentano solo un salto nel vuoto, ma una storia di fallimenti. Ne avevo già parlato qui, commentando le affermazioni di Salvini (“un reattore attivo in Italia entro il 2032”).

Recentemente è uscito questo bellissimo articolo dell’attivista australiano Jim Green in cui sono raccolte altre informazioni salienti.

Iniziamo con il notare che per quella che è la definizione di SMR (“small modular reactors”), cioè reattori di piccola taglia (meno di 300 MW) e costruiti in serie, nessuno è mai stato ancora prodotto, nessuno è in fase di produzione e con ogni probabilità nessuno sarà mai prodotto in futuro, visti i costi proibitivi per mettere su una fabbrica. Per quanto riguarda i reattori solo piccoli (non prodotti in serie), l’esercito americano ne ha costruiti otto a partire dal 1950, ma visto che si sono dimostrati inaffidabili e costosi persino per il livelli di investimento della difesa Usa, il programma è stato chiuso nel 1977.

Tutti i piccoli reattori Usa per usi civili costruiti tra il 1950 e 1960 sono stati definitivamente dismessi, come i ventisei reattori di tipo Magnox (ad anidride carbonica) costruiti nel Regno Unito, incluso quello di Latina. In India sono operativi 14 piccoli reattori ad acqua pesante pressurizzata, ciascuno con una capacità di 200 MW, ma nonostante tentativi di standardizzazione anche questi hanno sofferto di costi schizzati alle stelle e ritardi, e non è in progetto di costruirne altri. Anche gli altri piccoli reattori nel resto del mondo sono stati dismessi: tre in Canada, sei in Francia e quattro in Giappone. Il problema principale è che i piccoli reattori costano semplicemente troppo per la quantità minima di energia che producono. Anche le promesse dei due “mini” reattori costruiti in epoca recente, in Cina e in Russia (in Siberia), non sono state mantenute. Ad esempio, il reattore HTGR (210 MW) cinese è costato per kilowatt 6000 dollari, almeno tre volte le stime iniziali, e almeno il doppio di quanto sia costato il più grande reattore cinese (Hualong). Non è andata meglio al reattore russo, i cui costi di costruzione sono saliti di un fattore sei e l’elettricità che produce costa circa 200 dollari al MWh.

La costruzione del reattore CAREM argentino è iniziata nel 2014 e (forse) terminerà nel 2027, 50 anni dopo che il progetto è stato ideato, costando un miliardo di dollari. Tutto questo per una potenza di soli 32 MW, cioè quella di qualche decina di pale eoliche. Negli Stati Uniti è di poche settimane fa l’annuncio del fallimento del progetto NuScale in Idaho, nonostante finanziamenti pubblici di 4 miliardi di dollari dal governo americano e 1,4 dal dipartimento dell’energia. Nonostante questo, il progetto non è riuscito ad attrarre finanziamenti privati. Senza aver nemmeno posato la prima pietra, la stima dei costi era arrivata a 9.3 miliardi di dollari per una centrale di 462 MW composta da sei reattori modulari da 77 MW. Ma quello di NuScale è solo l’ultimo di una lunga serie di fallimenti: la lista comprende Generation mPower (abbandonato nel 2014), MPower (abbandonato nel 2017), MidAmerican Energy (2013), Terrapower (2018) negli USA, il reattore da 200 MW ASTRID in Francia.

Si tratta di progetti che, nonostante ingenti finanziamenti pubblici, non sono riusciti ad attirarne di privati. Quindi, mentre i reattori “grandi” anche se con molta difficoltà alla fine qualcosa la producono e in altre epoche potevano essere una strada da valutare, la storia dei “piccoli reattori modulari” è stata finora un disastro completo e globale. Su quali basi razionali il nostro ministro dell’Ambiente può ritenere che qui in Italia dovrebbe andare diversamente?

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