L’età della crescente diseguaglianza economica in cui viviamo ha visto il ritorno della scala mobile. Si tratta di una scala mobile diversa da quella degli anni Settanta. Intanto è molto lenta perché si muove ogni tre anni, concedendo un invidiabile vantaggio ai profitti sui salari. Si tratta poi di una scala con gradini molto diversi a seconda delle varie categorie economiche. Mentre nella precedente epoca della grande inflazione l’aumento era quasi il medesimo per tutti, ora è molto differenziato.

I gradini più bassi, come di consueto, sono assegnati alla PA con aumenti contrattuali del 6%. Poi segue la manifattura che sta rinnovando i contratti con incrementi salariali attorno al 10% e più. Molto meglio di tutti ha fatto il settore del credito con incrementi stellari attorno al 20%. Possiamo dire che la grande inflazione ha portato con sé un ulteriore grado di iniquità nei redditi, come è suo costume. Alcuni settori economici, in genere oligopolistici a bassa concorrenza, hanno recuperato più che bene, altri non recupereranno mai. Il pubblico impiego con i suoi 3,2 milioni di dipendenti, nonostante gli ottimi risultati finanziari, chiude la classifica. Lo sparuto gruppo dei bancari, 270.000 addetti, ha invece conseguito senza molto sforzo il risultato migliore.

Il caso del rinnovo contrattuale dei bancari merita una particolare attenzione. Infatti capita molto raramente che senza un’ora di sciopero, ma solamente con la minaccia di farlo, una categoria economica ottenga risultati così eclatanti, e non solo sulla parte economica. Le ragioni del milgior contratto di sempre sono ben note. Gli utili delle banche sono volati con l’inflazione bellica a quota 43 miliardi per il 2023, rispetto ai 25 miliardi del 2022 e ai 16 miliardi del 2021. Quest’onda anomala di profitti è stata causata dal rialzo del tasso di interesse da parte della Banca centrale europee e quindi da una causa esterna. Le banche sono tornate al vecchio modello di business facendo i soldi (facili) dai prestiti indicizzati, invece che da intermediazione.

Per dare un’idea della differenza tra tassi attivi e passivi, sui conti correnti oggi l’interesse è dello 0,26% e quello su prestiti del 4,36%, 20 volte tanto. Questa forbice sproporzionata tra tassi bassissimi sulla raccolta e quelli attivi sul credito spiega tutto. L’aumento dell’efficienza di cui spesso si parla forse fa riferimento alla riduzione del personale che è stata drammatica negli ultimi 10 anni con un calo del 25% del personale, ma non è poi l’elemento decisivo.

Come sono stati adoperati questi extraprofitti? Qui è interessante vedere come si muove il capitalismo finanziario e bancario. In primo luogo sono stati premiati gli azionisti con corposi riacquisti di azioni. Intesa San Paolo, per esempio, ha in programma di ritornare ben 3,5 miliardi agli azionisti riacquistando azioni proprie. Quindi i profitti regalati alle banche dalla Bce sono andati nelle tasche degli azionisti in un circuito finanziario tossico. Poi, con il rinnovo dei contratti è chiaro che si potevano accontentare le richieste veramente notevoli dei sindacati. Con conti così floridi, è difficile negare qualcosa. Quindi una seconda quota è andata al rinnovo dei contratti senza tener conto delle condizioni economiche generali dell’intera economia. Si va verso un dannoso corporativismo economico dove ogni categoria cerca di portare a casa il massimo vantaggio. Nulla o poco il capitalismo finanziario lascia invece ai risparmiatori distratti. Solo molto lentamente le banche stanno promuovendo prodotti finanziari con rendimenti decenti. Ma nulla anche per i debitori che subiscono le conseguenze della stangata della Bce sui mutui indicizzati.

Ecco allora la graduatoria: molto per gli azionisti, abbastanza per i dipendenti, nulla o poco per i clienti (risparmiatori e debitori) che possono aspettare tempi migliori. Il capitalismo oligopolistico e finanziario funziona così.

Poiché i lauti profitti bancari non sono derivati da qualche miracolo manageriale ma solamente dalle decisioni della banca centrale, anche la politica ha cercato di intervenire per correggere la distorsione. La premier Meloni già in campagna elettorale aveva promesso di mettere nel mirino i profitti delle grandi banche. Quello che è successo invece è un capolavoro di ipocrisia. Il governo aveva previsto inizialmente una tassa sui margini di interesse bancari per il 2023 con un’aliquota abbastanza elevata. In fase di conversione del decreto-legge la tassa è stata rivista e alle banche è stata data la possibilità di convertirla a riserve non distribuibili. Come risultato finale tutte le banche hanno aumentato le loro riserve. Una beffa totale. Invece di recuperare risorse per calmierare gli interessi sui mutui, come dichiarato, alla fine il governo ha fatto un bel regalo alle banche con i soldi dei contribuenti.

Nel mio piccolo, avrei una semplice proposta in stile sovranista per ridurre gli extraprofitti bancari al minimo e favorire i risparmiatori. Basterebbe indicizzare per legge i rendimenti dei conti correnti al tasso ufficiale di sconto, non completamente ma almeno per il 50%. In questo modo noi risparmiatori, anche se poco attenti, avremo qualche beneficio automatico dalle scelte della Bce. I soldi tolti ai debitori con l’aumento dei tassi verrebbero almeno restituiti ai risparmiatori, uscendo dall’immorale circuito dei profitti creati dalla Bce e lucrati principalmente dalle banche e dai loro azionisti. Con il governo Meloni la tassa sugli extraprofitti bancari ce la possiamo dimenticare. Un’altra promessa finita come un relitto in fondo al mare della demagogia politica della destra post-fascista.

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