La piattaforma pubblica per la raccolta digitale delle firme per i referendum è nata a novembre scorso. Un anno dopo il Parlamento sta ancora discutendo su come farla partire. Una lungaggine tra le tantissime della politica italiana che rischia di passare inosservata nonostante in ballo ci sia la partecipazione diretta di cittadini e cittadine alla vita politica del Paese. “Siamo davanti a un fare e disfare la tela di Penelope”, commentano Marco Cappato e Lorenzo Mineo, che insieme ad Associazione Coscioni e Eumans si battono da mesi perché il sistema sia operativo. Ma nonostante le proteste e un appello al governo che ha superato le 50mila firme, oggi la Camera ha ricominciato (quasi) da zero.

A Montecitorio infatti, è partito nelle scorse ore l’esame del decreto sulla raccolta delle firme elettroniche per i referendum. Peccato però che, già il 14 novembre scorso, era stata annunciata la messa online della piattaforma: istituita con la legge di bilancio del dicembre 2020, avrebbe dovuto essere operativa già a gennaio 2022. La data è slittata ulteriormente di mesi, salvo poi, quando finalmente è andata online, essere lasciata in “fase di test” e quindi impossibile da utilizzare. Ora il governo, con l’ennesimo decreto, propone ulteriori passaggi che spostano ancora più in avanti la possibilità di usare lo strumento. Nel testo dell’esecutivo, in discussione ora, si prevede di implementare l’organico della Corte di Cassazione che potrà avvalersi di personale dei ministeri per controllare le firme raccolte in modalità elettronica. Inoltre il decreto attribuisce al ministero della Giustizia la titolarità della piattaforma per la raccolta online delle firme degli elettori per i referendum e le proposte di legge di iniziativa popolare. Il Ministero, per gestione e manutenzione della piattaforma, può avvalersi, sulla base di apposite convenzioni e come già previsto a novembre scorso, della SOGEI.

Per il relatore Paolo Emilio Russo, capogruppo di Forza Italia in commissione Affari costituzionali, la “piattaforma non era ancora stata realizzata” e con il decreto “si può smaltire il lavoro arretrato” e quindi dare avvio alla nuova piattaforma. “È un altro passo avanti sulla strada per la modernizzazione del nostro Paese e della nostra democrazia”, ha dichiarato in Aula. Peccato però che, lo stesso passaggio era stato fatto un anno fa. Questo contestano Cappato e Mineo: “Il decreto proposto dal governo”, si legge in una nota, “annuncia tanti buoni propositi sul passaggio di consegne al ministero della Giustizia che dovrebbe finalmente permettere l’entrata in funzione della piattaforma pubblica di raccolta firme, ma siamo davanti a un fare e disfare la tela di Penelope, o a un vero e proprio gioco delle tre carte”. Il problema, dicono, è che lo strumento c’era già 12 mesi fa: “Con una piattaforma praticamente pronta a novembre 2022, ci ritroviamo adesso a dover ripartire quasi daccapo nel 2024, con un nuovo provvedimento che ne ridefinisce il funzionamento, senza alcuna garanzia su quando sarà pronta. Il governo dovrebbe astenersi da queste invenzioni legislative e burocratiche che interrompono l’esercizio dei diritti civili e politici: anche quest’anno, in assenza della piattaforma, non c’è stato alcun referendum depositato dai cittadini. Non c’è alcuna giustificazione possibile al fatto che aspettiamo la piattaforma pubblica da due anni, quando nel 2021 furono depositate oltre novecentomila firme digitali sui referendum eutanasia e cannabis, raccolte attraverso un sistema privato organizzato in tre mesi”. Firme che sono state ammesse nel conteggio solo grazie alle pressioni dell’Associazione Coscioni, ai ricorsi all’Onu di Mario Staderini e all’emendamento presentato in Parlamento da Riccardo Magi. I quesiti sono stati poi respinti dalla Consulta e quell’exploit di partecipazione dal basso non c’è più stato. E in attesa che la piattaforma pubblica sia operativa, si dovrà aspettare ancora mesi prima che gli strumenti di democrazia diretta siano operativi.

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