Più urgente della riduzione delle emissioni di gas serra c’è solo lo stanziamento di risorse per l’adattamento, ossia per fronteggiare gli effetti del cambiamento climatico. Con priorità per i Paesi più a rischio, come i piccoli arcipelaghi del Pacifico, ma senza dimenticare che questo è un problema che riguarda tutti, Italia compresa. Certamente alla Conferenza delle Parti sul clima di Dubai serve un accordo globale, il Global Goal on Adaptation e certamente è più difficile misurare i progressi e valutare le necessità su questo fronte, rispetto a quanto non lo sia per il taglio delle emissioni; la verità tuttavia è che alla Cop 2028 l’adattamento arriva ancora una volta come ‘pilastro’ a cui si è dato finora meno peso. “Nonostante i progressi compiuti dopo l’Accordo di Parigi, continuiamo a dover affrontare un evidente gap di adattamento” ha riconosciuto la premier, Giorgia Meloni, a Dubai. Ma anche l’Italia, che pure ha appena annunciato un contributo di 100 milioni di euro per il fondo Loss and Damage, sull’adattamento non rappresenta un’eccezione. Sia sul fronte dei contributi internazionali, sia su quello della prevenzione dentro i confini nazionali. Nella mozione di maggioranza approvata nei giorni scorsi proprio in vista della Cop 28, con intenti non aderenti alle politiche attuali dell’Esecutivo, l’adattamento ha comunque un ruolo marginale. Dentro i confini, invece, il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha sì annunciato che entro la fine del 2023 il Paese avrà, dopo anni e anni di attesa, il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici ma, nel rimodulare il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Governo Meloni ha scelto di dimezzare le somme destinate a contrastare il dissesto idrogeologico.

L’Italia, l’adattamento e quei fondi tagliati – Le risorse sono passate da 2,49 miliardi a 1,2 miliardi, perché sarebbe stato impossibile – secondo l’esecutivo – riuscire a utilizzare entro il 2026 (anno di scadenza del Pnrr) anche la quota restante, di circa 1,3 miliardi di euro. Un paradosso nel Paese dove il 94 per cento dei comuni è a rischio idrogeologico e alle prese con i danni per le alluvioni in Emilia-Romagna, Marche, Toscana a cui, poi, anche il Governo deve far fronte. Eppure a Dubai le parole della premier sono state chiare: “L’adattamento è una priorità per tutti, ed è una priorità per l’Italia che, come Nazione del Mediterraneo – una delle aree geografiche del pianeta identificata come hotspot climatico – è ben consapevole delle proprie responsabilità, non solo al proprio interno ma nel contesto globale”. Legambiente ha pubblicato nei giorni scorsi il ‘Rapporto città clima 2023, Speciale alluvioni’: negli ultimi 14 anni, dal 2010 al 31 ottobre 2023, sono stati registrati dall’Osservatorio Città Clima di Legambiente 684 allagamenti da piogge intense, 166 esondazioni fluviali e 86 frane sempre dovute a piogge intense, che rappresentano il 49% degli eventi totali registrati. Secondo i dati Ispra, circa 1,3 milioni di persone vivono in aree definite a elevato rischio di frane e smottamenti e oltre 6,8 milioni sono a rischio medio o alto di alluvione. In questo contesto, commenta Legambiente “il Governo Meloni ha scelto di dimezzare le somme destinate a contrastare il dissesto idrogeologico”, nel Paese che “ha speso dal 2013 al 2023, oltre 13,8 miliardi di euro in fondi per la gestione delle emergenze meteo-climatiche (dati Protezione civile)”. Significa che sono stati sborsati in media oltre 1,25 miliardi all’anno mentre – certifica l’Ispra – dal 1999 al 2022, per la prevenzione del rischio, sono stati ultimati quasi 8mila interventi per un importo medio di appena 186 milioni all’anno. E se il Governo Meloni ha spiegato che verranno messi a disposizione altri fondi per gli interventi non finanziati dal Pnrr, a riguardo la Corte dei Conti rileva “un problema di individuazione di finanziamenti, allo stato non ancora puntualmente definiti”. E l’adattamento passa indietro, come avviene a livello globale.

La più urgente tra le emergenze – L’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) conferma che non si sta investendo abbastanza. Secondo l’Adaptation Gap Report 2023, i costi di adattamento per i paesi in via di sviluppo sono stimati tra i 215 e i 387 miliardi di dollari all’anno in questo decennio e dovrebbero aumentare significativamente entro il 2050. Non è solo una questione di denaro, ma anche di urgenza, come mostra l’accordo firmato tra i primi ministri di Australia e Tuvalu per consentirà a più di 11mila residenti del piccolo arcipelago del Pacifico, minacciato dall’innalzamento del mare, di trasferirsi nel continente insulare. Dovrebbe rappresentare una parte importante di quel fondo da 100 miliardi di dollari all’anno (dal 2020 al 2025, per un totale di 600 miliardi) che i Paesi sviluppati si erano impegnati a mobilitare da fonti pubbliche e private. “Secondo i dati Ocse, nel 2021 per quel fondo sono stati forniti circa 89,6 miliardi di dollari (oltre 73 miliardi di finanziamenti pubblici, 14,4 da privati e il resto da partnership tra pubblico e privato), con un aumento dell’8% rispetto agli 83 miliardi del 2020” spiega a ilfattoquotidiano.it Mauro Albrizio, responsabile dell’ufficio europeo di Legambiente. I dati del 2022 che si stanno conteggiando, quindi, potrebbero rivelare che lo scorso anno si è raggiunto per la prima volta il target annuale (comunque molto lontano rispetto alle necessità). “Ma di quella cifra – aggiunge Albrizio – solo 24,6 milioni sono andati all’adattamento (nel 2020 erano 28,6) e sono tutti finanziamenti pubblici”. Tra l’altro, finora, quei soldi sono stati spesi anche per far fronte alle perdite e ai danni dovuti al cambiamento climatico per cui ora, però, c’è il fondo Loss and damage. Da qui l’impegno preso, già nel 2021, alla Cop 26 di Glasgow, di raddoppiare il sostegno finanziario per l’adattamento a circa 40 miliardi di dollari all’anno entro il 2025, rispetto ai 20 miliardi del 2019. Ne ha parlato anche Giorgia Meloni a Dubai. Su queste somme, però, ci sono una serie di problemi. Nei mesi scorsi, con alla mano i dati del 2020 (e quindi finanziamenti sulla carta per 83 miliardi di dollari) in un dossier Oxfam denunciava che le risorse stanziate erano molte meno, a causa di diversi problemi. “Per molti dei progetti finanziati – segnala Oxfam – è stato sopravvalutata l’effettiva portata nel contrastare la crisi climatica o perché sono stati erogati sotto forma di prestiti al loro valore nominale, aggravando il peso del debito estero di economie già fragilissime e fortemente indebitate”.

La quota equa (anche italiana) di finanziamenti per l’adattamento – E, comunque, secondo un recente studio del think tank Odi, rispetto all’impegno dei Paesi sviluppati di mobilitare collettivamente 100 miliardi di dollari all’anno (già entro il 2020) e il target di raddoppio dei contributi per l’adattamento a 40 miliardi all’anno entro il 2025, solo otto dei 23 Paesi sviluppati hanno fornito la loro quota equa di finanziamenti per il clima nel 2021, con un anno di ritardo rispetto all’obiettivo iniziale. Undici paesi hanno già contribuito alla loro quota equa di finanziamenti per l’adattamento nel primo anno dalla designazione dell’obiettivo. Alcuni hanno costantemente pagato più della loro quota equa sin dal 2017, in particolare Svezia, Norvegia e Germania. Altri, come Francia, Paesi Bassi e Danimarca, hanno iniziato a contribuire in maniera equa dal 2019 in poi. L’Italia ha fornito nel 2021 il 64% della sua quota equa di finanziamenti per il clima, che scende al 62% (1,17 miliardi di dollari) rispetto al solo obiettivo per l’adattamento. È in quindicesima posizione in termini di contributi di finanza per il clima nel 2021 e in sedicesima posizione per i contributi di finanza per l’adattamento. Nella mozione approvata in questi giorni, si impegna il governo “a incrementare entro il 2025 i finanziamenti per l’adattamento nei Paesi in via di Sviluppo”. Per il think tank Ecco l’Italia dovrebbe “contribuire con 60 milioni all’anno per il fondo per l’adattamento e rinnovarlo ogni anno”. L’impegno più rilevante è l’obiettivo dello 0,7% del Pil per gli aiuti allo sviluppo (metà per l’azione climatica). “Se raggiunto – spiega Ecco – significherebbe 6,8 miliardi all’anno per il clima”. Anche in questo caso, però, c’è da capire quanto andrebbe all’adattamento.

Il fondo per il clima – “Per colmare il deficit di adattamento, di 720 milioni di dollari all’anno (680 milioni di euro) – stima il think tank – l’Italia dovrebbe aumentare la quota di sovvenzioni a fondo perduto all’interno del Fondo italiano per il clima”. Il fondo per il quale l’Italia si è impegnata ad investire 840 milioni di euro all’anno dal 2022 al 2026 e da cui il Governo Meloni, prima di fare dietrofront, aveva intenzione di ‘prelevare’ 600 milioni in tre anni per il Fondo per la Cooperazione Orizzontale per l’Africa (poi scomparso) nell’ambito del Piano Mattei. Ad oggi, invece, non è ancora chiara la quota che sarà dedicata all’adattamento, ma solo che l’Esecutivo vuole investirlo prioritariamente nei Paesi dell’Africa. “Non però attraverso un approccio caritativo – ha annunciato Meloni – perché l’Africa non ha bisogno di carità”. Insomma, c’è ancora bisogno di chiarezza, anche perché i finanziamenti per il clima arrivano spesso sotto forma di prestiti. Il loro utilizzo può far aumentare il debito dei paesi in via di sviluppo “che hanno in genere spazi fiscali limitati” spiega Ecco e può entrare in competizione “con spese pubbliche urgenti, come quelle per la salute e l’istruzione”. I prestiti, poi, sono meno funzionali nell’adattamento rispetto a quando vengono utilizzati in progetti legati alla mitigazione, perché l’adattamento offre minori opportunità di rientro del capitale investito. Salvo poi dover pagare per il disastro. Secondo l’Unep ogni miliardo di dollari investito nell’adattamento alle inondazioni costiere si traduce in una riduzione di 14 miliardi di dollari dei danni economici.

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