Fresca di assegnazione dell’Expo 2030, impegnatasi a contribuire al raggiungimento degli obiettivi sul clima degli Accordi di Parigi (che mirano a mantenere il riscaldamento medio globale al di sotto dei due gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale), l’Arabia Saudita nel 2020, attraverso il suo ministero dell’Energia, aveva lanciato il Programma per la sostenibilità del petrolio (OSP). Obiettivo dichiarato: “rimuovere le barriere” energetiche e al trasporto nei paesi più poveri, in particolare africani, “aumentando la sostenibilità”. Sostenibilità che, però, rischia di essere un aspetto puramente formale, vuoto di contenuti, in grado di compromettere quella stessa lotta ai cambiamenti climatici e all’eccessivo inquinamento globale.

Un’inchiesta condotta dal Centre for Climate reporting e Channel 4 ha infatti gettato una luce sui dettagli di questo Programma, che conterrebbe un imponente piano di investimenti volto in sostanza a rendere i paesi in via di sviluppo sempre più dipendenti dal greggio saudita, anche tramite lo sviluppo di aerei supersonici (tre volte più inquinanti dei convenzionali) e autovetture low cost per il mercato africano (nel quale solo il 3% è proprietario di una autovettura, ndr), aumentando un consumo del petrolio che al momento è più contenuto rispetto all’Occidente.

“Il governo saudita è come uno spacciatore, che vuole rendere l’Africa dipendente dai suoi prodotti nocivi”, ha dichiarato al Guardian Mohamed Adow, il direttore del think thank africano PowerShift. “Mentre il resto del mondo sta cercando di sbarazzarsi dei combustibili fossili, l’Arabia Saudita è alla disperata ricerca di nuovi clienti, e si concentra sull’Africa. È rivoltante”, continua Adow, che aggiunge come il continente africano necessiti di non seguire la strada dei paesi più inquinanti, bensì di sfruttare l’enorme potenziale delle sue rinnovabili, “saltando” la fase fossile. “Il fatto che i paesi africani siano così disperati da cadere in questo tranello spiega molto del fallimento dei paesi più inquinanti nell’onorare gli impegni sul clima”, conclude Adow.

Un funzionario del governo saudita, interpellato su questi temi da alcuni reporters sotto copertura che si erano presentati come potenziali investitori, ha confermato come un degli obiettivi dell’OSP sia proprio quello di stimolare la domanda di idrocarburi, argomentando in modo opposto rispetto ad Adow, ed insistendo sul fatto che i paesi africani ad oggi non hanno una rete elettrica abbastanza efficiente per sostenere la quotidianità. Riad non crede, quindi, che i paesi in via di sviluppo possano “saltare” la fase dei combustibili fossili, poiché per l’implementazione ad esempio dei veicoli elettrici è necessaria una infrastruttura funzionante che al momento non c’è, e che rende impellente l’accesso agli stessi combustibili fossili, rimandando la transizione.

“L’Arabia Saudita, come gli altri produttori di combustibili fossili, soprattutto nel Golfo, ha una duplice strategia”, spiega a ilfattoquotidiano.it Cinzia Bianco, analista dei Paesi del Golfo per l’European Council for Foreign Relations. “Da un lato, cercare a tutti i costi di essere i ‘last men standing‘ del petrolio, cioè sfruttare la loro posizione privilegiata per produrre a basso costo finanziario e a basse emissioni di CO2, nonché il loro vantaggio di investitori, per restare i più importanti esportatori di combustibili fossili più a lungo possibile, mentre altri produttori (come la Russia o il Venezuela) sono tagliati fuori dal mercato globale. Dall’altro lato, reinvestire il più possibile nella produzione di energia verde è altrettanto (se non più) importante, perché i sauditi hanno accettato l’idea che la transizione energetica prima o poi succederà, e vogliono farsi trovare pronti per essere importanti esportatori di energia verde“, conclude Bianco.

Che l’OSP saudita nascondesse delle ambiguità lo si poteva forse capire già dal linguaggio utilizzato sullo stesso sito web del ministero dell’Energia saudita: se nella versione in lingua inglese si parla infatti di “Programma per la sostenibilità del petrolio”, in quello in lingua araba compare un’altra parola in grado di stravolgerne il senso, cioè “Al talab“, che si traduce con “domanda“. Così, il Programma mirerebbe in realtà alla “sostenibilità della domanda di petrolio“, e nelle righe seguenti si legge che dovrebbe “sostenere e sviluppare la domanda di idrocarburi come fonte d’energia competitiva, aumentandone l’efficienza economica ed ambientale, assicurando allo stesso tempo che la transizione sia sostenibile per il Regno dell’Arabia saudita“. Non è forse un caso che nel corso del mese di novembre, Riad abbia firmato col Ruanda un accordo per “sviluppare la domanda di risorse legate agli idrocarburi”, con la Nigeria per “promuovere la collaborazione e rafforzare la partnership nel settore del petrolio e del gas”, e con l’Etiopia per “cooperare sull’offerta di petrolio”. Intanto, al Summit sul clima Cop28 di Dubai, iniziato il 30 novembre, una delle principali questioni sul tavolo è proprio se i paesi partecipanti siano già oggi in grado o disposte ad impegnarsi ufficialmente per una riduzione o una eliminazione dei combustibili fossili. Dalla risposta a questa domanda dipenderà in parte la possibilità che nel prossimo futuro emergano altri accordi come i sopracitati, che rischiano di rallentare il cammino verso un mondo più sostenibile dal punto di vista ambientale.

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