di Stefano De Fazi

Come in ogni autunno, durante l’iter di approvazione della legge di bilancio, si è assistito ad un governo che ripeteva come la mancanza di risorse costringesse ad una manovra contenuta e di “buon senso”. Questa prospettiva viene quasi sempre presa come un assioma incontrovertibile. Le tasse che paghiamo sono già alte; il debito pubblico che abbiamo non permette ulteriore deficit. Bisogna accontentarsi di poche briciole; nonostante la situazione attuale dei servizi pubblici e del welfare necessiti di somme ben più ampie.

In effetti, l’incidenza della tassazione sul Pil in Italia è al 43% e in poche nazioni al mondo è più elevata. Anche come debito pubblico siamo messi male e secondi in Europa solo alla Grecia. Le conclusioni sembrano quindi essere scontate; non si può ambire ad un bilancio pubblico più corposo, ma al massimo ad una organizzazione più efficiente della spesa.

Tuttavia, questa visione non tiene conto di come la pressione fiscale è ripartita. Spinge la narrativa di cittadini italiani tutti ugualmente tartassati dal fisco che non possono essere spremuti ulteriormente. In realtà, la situazione è ben diversa e vede il lavoratore comune pagare ingenti somme al fisco, mentre chi gode di rendite di natura finanziaria o immobiliare pagare percentuali bassissime sui suoi guadagni. Per questo quando si parla di legge di bilancio, la domanda da cui partire sarebbe come reperire le risorse necessarie per finanziare i servizi che vogliamo lo stato garantisca e non come allocare le poche risorse che allo stato attuale sono disponibili.

Allora è necessario discutere il fatto che l’Irpef, nato come imposta generale su tutti i redditi, si sia trasformato nel tempo in un’imposta pagata principalmente sui redditi da lavoro dipendente. I redditi da capitali godono di aliquote agevolate e non rientrano nel regime ordinario dell’Irpef. Il risultato è che nonostante questo tipo di reddito costituisca quasi il 50% del reddito totale del paese (considerando anche il reddito da lavoro autonomo), contribuisca al fisco in maniera molto minore rispetto al reddito da lavoro dipendente.

E’ necessario ridiscutere l’imposta di successione. Sbrigativamente bollata come spregevole perché considerata una tassa sulla morte, quando al contrario è fondamentale per non accentrare troppo le ricchezze per linea dinastica e poter considerare un sistema economico meritocratico. Attualmente l’aliquota sulle grandi successioni in Italia è molto più bassa della maggior parte degli altri paesi occidentali e inoltre la franchigia è molto elevata. Il risultato inevitabile è che meno di un miliardo di euro ogni anno entra nelle casse dello stato, mentre in Francia ci si avvicina ai 15 miliardi.

La parola patrimoniale deve smettere di essere un tabù. L’1% più ricco detiene il 22% del patrimonio italiano, Anche una aliquota media relativamente bassa produrrebbe decine di miliardi addizionali per il bilancio pubblico annualmente. Per esempio come stimato dall’organizzazione Sbilanciamoci, l’introduzione di una patrimoniale che vada da un’aliquota di 0,5% (per i patrimoni superiori al milione) al 2% (per i patrimoni sopra ai 500 milioni) sarebbe pagata solo dal 2% degli italiani e produrrebbe un gettito aggiuntivo di 32 miliardi.

Finché queste tematiche non entreranno al centro del dibattito politico e non si pretenderà di più da quelle categorie che hanno entrate finanziarie precluse alla maggior parte degli italiani e che allo stesso tempo pagano al fisco molto meno del lavoratore comune, l’andamento del paese non cambierà. Continueranno a mancare decine di migliaia di medici nel SSN. Continueremo ad essere in fondo nelle classifiche di spesa pubblica per istruzione. Continueremo a non poter dare il supporto adeguato a quelle milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà assoluta. Continueremo ad essere un paese fatto su misura per pochi privilegiati, che si arricchiscono sulle spalle di tutti gli altri.

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