Secondo il ministero della Salute libanese, sono 77 le vittime finora registrate in poco più di un mese di scontri a fuoco nei pressi dei villaggi al confine tra Libano e Israele, 250 i feriti e, come riporta l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), oltre 26mila gli sfollati. Numeri più contenuti rispetto a quelli del 2006, quando dopo un mese le vittime erano state oltre un migliaio, con bombardamenti israeliani sin nel sud di Beirut, sui quartieri a maggioranza sciita. È però indubbio che un allargamento del conflitto a Gaza sia già realtà nel sud del Libano, con il partito-milizia sciita di Hezbollah attivo in quelle che il suo segretario generale, Hassan Nasrallah, ha definito – nel suo primo discorso dal 7 ottobre, tenuto una decina di giorni fa – azioni di solidarietà col popolo palestinese, volte a “tener impegnata una buona parte dell’Esercito israeliano”. Esercito che d’altronde ha già risposto al lancio di razzi e “droni suicidi” con un massiccio uso dell’artiglieria e con alcuni raid aerei, anche utilizzando munizioni al fosforo.

Delle 77 vittime finora registrate, non meno di 60 sono miliziani del partito sciita, meno di una decina i civili (tra cui il giornalista della Reuters, Essam Aballah, ucciso dalle Forze di difesa israeliane nei pressi di Almaa Al Shaab) e i restanti sarebbero combattenti di altre formazioni che hanno “aderito” all’apertura parziale di un secondo fronte di guerra oltre a quello che si sta consumando a Gaza.

Hezbollah, infatti, non sembra essere solo in questo segmento di guerra. Lo si era capito già all’indomani del 7 ottobre, quando ad alcuni “protocollari” lanci di razzi da parte di Hezbollah verso il nord di Israele erano seguiti alcuni tentativi di incursione via terra attraverso il muro di separazione da parte di una serie di miliziani la cui uccisione per mano delle Idf non veniva poi esplicitamente rivendicata dal partito sciita, di norma molto solerte nell’elencare e nominare i suoi “martiri”.

Nelle prime fasi di questo conflitto sul fronte nord di Israele, il “contributo” di formazioni libanesi e palestinesi, non connesse o dipendenti da Hezbollah, è stato rilevante: non solo miliziani dei “distaccamenti” locali di Hamas (o meglio, delle sue Brigate Ezzedin al Qassam) e del Jihad islamico palestinese (e delle sue Brigate al Quds), ma anche formazioni libanesi sunnite come la Jamaat al Islamiya, guidata da Sheikh Mohammad Takkoush, che dopo diversi anni ha “rispolverato” il suo braccio armato, le Brigate al Fajr. Le formazioni sunnite, inoltre, svolgono il ruolo di “facilitatori” di Hezbollah nei villaggi a maggioranza sunnita nei pressi del confine, nei quali la presenza dei miliziani sciiti sarebbe forse meno tollerata senza le loro attività di intercessione.

In modo non troppo dissimile da Hamas, la Jamaat al Islamiya è affiliata alla Fratellanza Musulmana, la cui relazione con Hezbollah è notoriamente complessa. La formazione sunnita durante gli Anni 80 ha già combattuto contro gli israeliani, ma è proprio in quel periodo che si verificano le prime fratture al suo interno con la fondazione nel 1982 del movimento al Tawhid (unità) da parte dello scissionista Saeed Shaaban, influenzato dalla rivoluzione iraniana di qualche anno prima e convinto della necessità di una alleanza, o meglio proprio di una unità tra sunniti e sciiti.

Nel 2005, con l’assassinio di Rafiq Hariri e la creazione dei due campi contrapposti dell’8 marzo (pro-siriano, Hezbollah capofila) e del 14 marzo (anti-siriano, col movimento Futuro di Saad Hariri come capofila), la Jamaat al Islamiya si colloca vagamente nel secondo. Ed è a partire da questo periodo che le relazioni con Hezbollah peggiorano. Nonostante ciò, quando i miliziani sciiti, insieme ai loro “cugini” di Amal, nel maggio 2008 “invadono” una parte del centro di Beirut per forzare l’annullamento di alcune misure di sicurezza decise contro il partito sciita (in breve, lo smantellamento della sua rete parallela di comunicazioni all’aeroporto di Beirut, ndr), ingaggiando scontri armati con affiliati dello stesso movimento Futuro di Hariri, i membri della Jamaat al Islamiya si astengono dal prender parte alle ostilità, rendendo così più agevole il successo dei miliziani sciiti.

Tre anni dopo inizia il conflitto in Siria, che Hezbollah legge come un sistemico tentativo degli Stati Uniti di rovesciare il regime di Bashar Al Assad attraverso il sostegno a decine di formazioni armate sunnite, mentre gruppi come la Jamaat al Islamiya, ma anche la stessa Hamas, leggono come un tentativo del regime di Damasco di impedire l’autodeterminazione del popolo siriano, partecipando anche agli scontri armati con l’esercito di Damasco. È in questo periodo, almeno sino al 2019, che le relazioni tra la stessa Hezbollah e le formazioni sunnite libanesi vivono il loro periodo più teso.

Un punto di svolta parziale si ha però con il declino – iniziato col rapimento subito dai sauditi e culminato oltre due anni fa con l’abbandono della politica – della figura di Saad Hariri che di fatto lascia una buona parte della comunità sunnita libanese orfana di un leader. Uno sviluppo che quasi si sovrappone all’inizio delle proteste anti-governative in Libano a fine 2019, a sua volta sovrapponibile al deflagrare di una crisi economica senza precedenti. Se la Jamaat al Islamiya aderisce in modo deciso alle proteste – da cui Hezbollah gradualmente prima si distacca e poi si oppone -, soprattutto nella città di Saida, i suoi affiliati non partecipano mai alle diverse escalation che si verificano in piazza negli anni successivi.

Fino alle elezioni del 2022, quando la formazione sunnita ottiene un solo seggio in Parlamento – visto lo scarso sostegno ai partiti islamisti da parte della comunità sunnita libanese, abituata alle posizioni più liberali e filo-occidentali del partito di Hariri – ma decide di posizionarsi politicamente in una sorta di zona grigia, a metà tra il fronte a sostegno di Hezbollah e quello che vi si oppone.

Questo equilibrismo, spiega sulle colonne di L’Orient le Jour il ricercatore dell’Università di Bristol, Raphael Lefevbre, sarebbe dovuto proprio alla necessità di evitare lo sfaldamento interno, di trovare un instabile compromesso tra l’anima del partito che guarda più all’alleanza con l’Asse della Resistenza dell’Iran e di Hezbollah e quella che guarda più alla Turchia e al Qatar, visto che il movimento della Fratellanza Musulmana è storicamente osteggiato non solo da Teheran ma anche dalla rivale Arabia Saudita, per decenni finanziatore principale di Hariri e della comunità sunnita di riferimento. Inoltre, dall’evaporazione del movimento Futuro la comunità sunnita è uscita ancor più frammentata politicamente, con la presenza di altri partiti come quello salafita, quello di Ahbash (alleato di Hezbollah) ed altri minori.

La guerra con Israele sembra aver messo perlomeno in stand by questi incerti sviluppi, riunendo almeno apparentemente delle formazioni molto diverse – anche e soprattutto per agenda politica interna – sotto al messaggio della “resistenza” al nemico. E se è vero che il venir meno della faglia politica tra sunniti e sciiti potrebbe potenzialmente produrre dei cambiamenti nella mappa geopolitica dell’area, e anche nell’unità del fronte in conflitto con Israele, è tutto da verificare se ciò si possa tradurre in una futura alleanza politica in Libano. Dove Hezbollah, rispetto alla guerra del 2006, sembra paradossalmente più solo, sebbene immensamente più potente.

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