Forse è prematuro, ma quando – e se – si arriverà alla prova referendaria, bisognerà trovare gli argomenti giusti. Anzi, forse lo sforzo dovrà essere quello di trovare l’argomento giusto, al singolare. Quella anti-ribaltone è, infatti, una narrativa che può essere oggettivamente vincente, o che comunque rischia di fare molta presa sull’elettorato. Conviene prepararsi, dunque, e trovare un argomento altrettanto efficace.

Da questo punto di vista, i tecnicismi su come questa riforma mal funzionerebbe non bastano. È un tema che sicuramente va affrontato, e su cui va sensibilizzata la classe politica prima e poi tutto l’elettorato, ma che rischia di intercettare una cerchia troppo ristretta di elettori.

Serve qualcosa di più; che tocchi la pancia, il cuore, l’emotività, non solo la mente. Ha ragione Bersani: qui serve entrare nel bar. E al bar, tra chi si mette a far lezione di diritto costituzionale, e chi propone i soliti strali contro le lacrime e sangue del governo Monti, vince il secondo. Senza dubbio alcuno.

Ancora, al bar non funziona neanche il tema – che è in realtà il più importante di tutti, assolutamente – dei rischi per la tenuta democratica del sistema che deriverebbero da un rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio che non ha pari in altre democrazie contemporanee. Questo è un argomento debole con i forti, e i forti, al momento, sono gli elettori di questo governo di destra. Per essere più chiari: qui bisogna convincere la maggioranza degli elettori a votare “No” alla riforma. Ma – stando almeno ai dati di un anno fa – la maggioranza degli elettori oggi ha il suo governo al potere. E non si può andare a dire a chi oggi è al potere che è pericoloso un potere troppo saldo: l’argomento non ha presa. Anzi, rischia di produrre l’effetto contrario rispetto a quello voluto.

Un suggerimento, forse, può venire dalle vicende del processo costituente. In quel processo, si troveranno differenze importanti tra le proposte originarie e le soluzioni cui approda l’Assemblea costituente al termine del suo lavoro.

Questo principalmente perché all’inizio del percorso c’è un’unità politica tra tutte le forze antifasciste, che sono tutte al governo, mentre, quando si arriva nella seconda metà del 1947 alle scelte finali, quell’unità è andata in frantumi, ed è ormai ben chiaro che ci sarà, da un lato, in particolare una forza politica che resterà a lungo esclusa dall’area di governo, e, dall’altro, una forza che invece costituirà a lungo il traino attorno alla quale si coaguleranno le forze minori. Questa cosa ha effetto anche sulle scelte costituenti in materia di forma di governo, e in particolare con riguardo ai meccanismi volti a garantire la stabilità del governo. Per intenderci, se all’inizio tutti stanno al governo, tutti vogliono il grado massimo di stabilità; se, poi, qualcuno capisce che al governo non ci starà a lungo, e qualcun altro capisce che forse ci starà, ma in posizione minoritaria, allora le cose cambiano.

Così, se nella fase preparatoria della discussione in Assemblea costituente si erano proposte formule di stabilizzazione abbastanza forti (qualcuno propone la sfiducia costruttiva, mentre la soluzione provvisoria su cui ci si accorda contempla, tra l’altro, la possibilità del governo sfiduciato di appellarsi alle Camere riunite), quando poi si arriva al dibattito finale, di un esecutivo che sia quasi impossibile da far dimettere hanno in fondo paura tutti (o almeno i più), e si vira verso quelle formule di razionalizzazione del sistema più attente alla posizione delle minoranze, che conosciamo bene.

Qui non si sta dicendo di raccontare tutta questa storia al bar, per carità. Ma forse lo spettro di quell’”alterna onnipotenza delle umane sorti” che fece cambiare il corso al dibattito nel processo costituente può essere, ben calibrato, l’argomento di cui abbiamo bisogno oggi.

La riforma costituzionale, e in particolare il premio di maggioranza costituzionalmente previsto, può produrre risultati mostruosi. Bisognerà naturalmente vedere come il Parlamento disegnerà il resto della legge elettorale (e non che il Parlamento abbia dato ultimamente prove rassicuranti, su questo fronte…), ma in teoria la norma è compatibile con uno scenario in cui – giocando con i dati delle ultime elezioni politiche – il 55% dei posti in Parlamento andrebbero alla lista che ha ottenuto il 25,8% dei voti. Con un’alterazione spaventosa quanto all’eguaglianza del voto, perché a quel punto chi ha votato per la lista vincitrice vale più di due, e tutti gli altri meno di 0,5.

E, d’altra parte, ancora più mostruoso appare lo scenario se si considera che, con un’affluenza del 63,9%, la lista con il 25,8% dei voti ha in realtà solo il 15,8% dei consensi del corpo elettorale. E questo 15,8% degli elettori, con il 55% dei seggi in Parlamento, farebbe il buono e il cattivo tempo.
Ma il bello della democrazia dell’alternanza è che in questo 15,8% oggi ci sei e domani, chissà, forse no. Anzi, statisticamente capita più spesso che sei fuori da quel 15,8% di quante volte invece ci stai dentro.

E se è bello stare dalla parte del più forte, quando il più forte sei tu, le cose cambiano se immagini per un attimo di stare in quel 84,2% di elettori con una rappresentanza tragicamente dimezzata. Forse lì qualche garanzia in più la vorresti anche tu. E questo, forse, si può (e si deve) dire anche al bar.

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