L’Iran, la Siria, Hezbollah e soprattutto Hamas si aspettavano una presa di posizione più forte contro l’operazione di Israele nella Striscia di Gaza. L’esito del vertice straordinario dei leader della Lega Araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci), a Riyad, ha invece evidenziato una spaccatura nel mondo musulmano tra due blocchi. Il primo, che fa capo a Teheran e si identifica nella cosiddetta Mezzaluna sciita, che rifiuta la soluzione dei due Stati, condanna senza appello i raid di Tel Aviv sui civili, chiede sanzioni nei confronti di Israele e sostegno per Hamas fino alla liberazione della Palestina. L’altro, trainato dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo che, nonostante la condanna della violenta reazione dell’esecutivo Netanyahu all’attacco degli islamisti del 7 ottobre, non ha alcuna intenzione di interrompere il legame faticosamente costruito con il cosiddetto ‘Stato ebraico’. Soprattutto dal punto di vista economico.

Che il summit di sabato scorso non sia andato come speravano l’Iran e la leadership di Hamas è testimoniato dalle loro stesse dichiarazioni. Per il partito armato palestinese, dall’incontro non escono “misure efficaci e meccanismi immediati per fermare la guerra contro il nostro popolo – come affermato da Osama Hamdan, leader della formazione in Libano – Ci aspettavamo che i nostri fratelli arabi e musulmani usassero tutta la loro forza politica ed economica per fare pressione su Washington affinché fermasse immediatamente l’aggressione contro civili e bambini”. Anche Teheran non può dirsi soddisfatta dell’esito del vertice straordinario: “La risoluzione, adottata ieri nel corso del vertice congiunto dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) e della Lega Araba sulla Palestina, è forte, ma l’Iran è preoccupato per quattro delle sue clausole che includono la risoluzione della crisi palestinese sulla base della soluzione dei due Stati e anche quella del riconoscimento dei confini del 1967 per la Palestina – ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kanani – L’Iran ritiene che Israele non abbia alcun diritto sulle terre palestinesi”.

L’evento ha registrato lo storico incontro tra il presidente Ebrahim Raisi e il principe ereditario Mohammad bin Salman, oltre che quello tra il capo dell’esecutivo iraniano e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. C’erano tutte le premesse per un comunicato finale che vedesse il fronte arabo-musulmano unito contro lo Stato d’Israele ed era questo che speravano nella Repubblica Islamica. Che, però, si è dovuta ricredere. Mentre Teheran chiedeva lo stop immediato all’operazione a Gaza e rivendicava il diritto dei palestinesi di esercitare la propria autorità su tutta la Palestina, “dal Giordano al mare”, non contemplando così l’esistenza di uno Stato israeliano, da parte della monarchia saudita è invece arrivato un messaggio più in linea con quello lanciato nei giorni scorsi anche dalle Nazioni Unite: “La fine dell’occupazione israeliana e degli insediamenti illegali, il ripristino dei diritti acquisiti del popolo palestinese e la creazione dello Stato nei confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale”. Richiesta formalizzata nel comunicato finale del summit, in cui si respinge l’ipotesi di una separazione tra Gaza e Cisgiordania.

Che la crisi nella Striscia stia andando verso una sorta di “normalizzazione” anche nell’atteggiamento dei Paesi arabi lo si può leggere pure nelle quotazioni di petrolio e gas. Le due commodities avevano avuto una qualche reazione, non scomposta, nei giorni seguiti all’attacco dello scorso 7 ottobre ma ora, con i grandi produttori dell’area che non sembrano avere alcuna intenzione di spendersi nei fatti per la causa palestinese, la calma regna. Tra il 7 e il 20 ottobre il prezzo di un barile di brent, il greggio di riferimento per i due terzi degli scambi mondiali, è salito da 84 a 92 dollari, per poi ridiscendere fino a sotto gli 80 dollari nelle settimane successive, il valore più basso dallo scorso luglio. Una dinamica non dissimile ha caratterizzato il gas, prima balzato da 41 a 56 euro al megawattora e ora tornato in zona 45 euro. Dopo il 7 ottobre, Israele aveva bloccato le esportazioni di gas verso l’Egitto per ragioni di sicurezza, ora però i flussi sono in costante aumento sebbene non abbiano ancora recuperato pienamente i volumi antecedenti lo scoppio della guerra. Parte del gas che dai giacimenti marittimi israeliani finisce in Egitto viene poi riesportato verso l’Europa via nave in forma di gas liquefatto.

Sono proprio i legami commerciali ed economici ad aver contribuito ad annacquare le posizioni dei Paesi arabi. Nelle scorse settimane, i governi che più di tutti si erano avvicinati a Israele nell’ambito degli Accordi di Abramo, ai quali si aggiunge l’Arabia Saudita che stava per concludere una storica intesa con Tel Aviv, avevano fortemente condannato l’operato del cosiddetto ‘Stato ebraico’, tanto da spingere Riyad a bloccare un processo di avvicinamento che molti osservatori davano ormai per fatto. Evidentemente, ai vertici delle monarchie ha prevalso l’interesse nazionale, contrario a un nuovo isolamento di Israele nell’area. Così già l’8 ottobre, tre giorni prima del summit di Riyad, è stato il ministro per gli Investimenti saudita, Khalid-al-Falih, a precisare che Arabia Saudita e Israele hanno ancora la possibilità di un riavvicinamento: “I colloqui attualmente sospesi sono subordinati a una soluzione pacifica della questione palestinese. La battuta d’arresto del mese scorso ha chiarito il motivo per cui l’Arabia Saudita era così irremovibile nel chiedere che la soluzione del conflitto palestinese fosse parte di una normalizzazione più ampia“.

Gli appelli del presidente palestinese Abu Mazen hanno quindi trovato un mondo arabo e musulmano diviso in due blocchi. Teheran invita a “baciare le mani a Hamas per la sua resistenza contro Israele” e a “interrompere tutte le relazioni diplomatiche” con Tel Aviv. Ma dal Golfo non ci sentono: condanna per i crimini d’Israele a Gaza, richiesta di un cessate il fuoco e di un allineamento dell’Occidente su queste posizioni. Ma non si andrà allo scontro diretto con Israele.

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