Meno di un mese di guerra a Gaza è bastata a demolire quelli che l’amministrazione Trump prima e Biden dopo consideravano tra i principali successi nel processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i suoi vicini: gli Accordi di Abramo. Se le aperture, le strette di mano e il riconoscimento di Tel Aviv come attore nel contesto mediorientale avevano richiesto anni di contrattazioni e mediazioni guidate dal genero, nonché consigliere, del tycoon, Jared Kushner, sono bastati l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso e, soprattutto, la nuova e sanguinosa escalation nella Striscia a decretarne la morte quasi certa.

L’ultimo episodio in ordine di tempo è quello che riguarda il Bahrain, uno dei quattro firmatari degli accordi sponsorizzati dall’amministrazione Trump insieme a Emirati Arabi, Marocco e Sudan. Il Parlamento del regno del Golfo ha infatti annunciato il ritiro del proprio ambasciatore in Israele e la sospensione dei legami economici con Tel Aviv. Le motivazioni esplicitate dall’Assemblea di Manama sono facilmente intuibili: il sostegno “della causa palestinese e dei diritti legittimi del popolo palestinese”, mentre a Gaza, secondo fonti della Striscia, si è arrivati ormai a quasi 9mila morti in poco più di tre settimane di guerra. Una notizia che, nel momento in cui si scrive, non è stata ancora confermata dalla monarchia.

Se si esclude il Sudan, anche gli altri due firmatari degli Accordi hanno preso posizione contro la campagna militare ordinata dal governo di Benjamin Netanyahu nell’enclave palestinese. I ministri degli Esteri di Marocco ed Emirati sono tra i nove firmatari di una richiesta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché si lavori per giungere a un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza. Il comunicato congiunto, che porta le firme anche dei capi della diplomazia di Giordania, Bahrain, Arabia Saudita, Oman, Qatar, Kuwait ed Egitto condanna esplicitamente la ”punizione collettiva” dei palestinesi di Gaza da parte di Israele. Un termine, questo, che richiama a uno specifico crimine di guerra riconosciuto dall’Onu. “L’autodifesa non giustifica le violazioni del diritto internazionale e il deliberato disprezzo dei diritti legittimi” del popolo palestinese, si legge nel documento che condanna anche lo sfollamento forzato dei palestinesi di Gaza verso il valico di Rafah, al confine con l’Egitto.

Tra questi firmatari c’è anche l’Arabia Saudita, altro Paese che da anni sta portando avanti un sotterraneo e graduale riavvicinamento a Israele, culminato con la visita, a settembre, di un ministro di Tel Aviv per la prima volta nella storia nel regno degli al-Saud. Il ministro degli esteri israeliano, Eli Cohen, si era sbilanciato affermando pubblicamente che un accordo tra i due Paesi poteva arrivare “nel primo trimestre del 2024. Abbiamo raggiunto un punto in cui le probabilità sono più elevate che mai”. È passato poco più di un mese da quelle parole, pronunciate dieci giorni prima dell’attacco compiuto da Hamas, che oggi sembrano fuori dalla realtà: dopo una prima fase attendista, Riyad è tornata sulle sue vecchie posizioni rinnovando il pieno appoggio alla popolazione palestinese e condannando le azioni di Israele a Gaza.

C’è poi la Giordania, uno dei Paesi arabi storicamente super partes nel conflitto essendo custode dei luoghi sacri di Gerusalemme, alleato degli Stati Uniti e allo stesso tempo Stato che accoglie una delle più grandi comunità palestinesi fuori dai Territori Occupati. Nelle ultime ore, anche Amman ha preso la pesante decisione di ritirare il proprio ambasciatore in Israele. Una scelta del genere, sommata all’attuale compattezza del mondo arabo e musulmano sulla condanna delle azioni di Israele a Gaza, conferma uno stravolgimento del ruolo dello ‘Stato ebraico’ nella regione: Israele va verso una stagione di isolamento che non si vedeva ormai da diversi anni.

Twitter: @GianniRosini

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