Ha lasciato nei cassetti fascicoli delicatissimi per stalking, sequestro di persona e – in più casi – violenze sessuali su minori, dimenticandoli per nove, dieci o addirittura 17 anni, “oltre ogni ragionevole termine di durata delle indagini preliminari”. Così i reati sono tutti caduti in prescrizione, “arrecando un indebito vantaggio” agli indagati e “un ingiusto danno” alle presunte vittime. Per questo la pm Alessia Sinatra, sostituta alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo e a lungo membro del pool specializzato nei reati contro le fasce deboli, è stata condannata dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura alla sospensione dal servizio per sei mesi e trasferita d’ufficio al Tribunale di Caltanissetta, con funioni di giudice civile. Una sanzione molto più pesante rispetto alla perdita di anzianità di tre mesi chiesta dalla Procura generale della Cassazione, che rappresenta l’accusa. “Non si ricorda a memoria d’uomo una sentenza così pesante per incolpazioni di questo tipo”, è il commento del difensore della pm, l’avvocato penalista Mario Serio.

La molestia subita da Creazzo – Non si tratta, peraltro, della prima condanna disciplinare nei suoi confronti. Sinatra infatti è nota a livello nazionale per essere stata vittima di molestie sessuali dall’ex procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo: invece di denunciarlo, però, per “vendicarsi” si era rivolta in privato al capo della sua corrente, Luca Palamara, chiedendogli di boicottare la corsa del collegaporco” al vertice della Procura di Roma. Per questo, a febbraio, il Csm le aveva inflitto la sanzione simbolica della censura. Criticando la decisione, l’avvocato Serio aveva parlato di “grave arretramento nella difesa delle vittime di abusi”. Pochissimo tempo dopo, la magistrata era stata chiamata a tornare davanti al tribunale interno di palazzo dei Marescialli per rispondere di violazione dei “doveri di diligenza e laboriosità”, violazione di legge “determinata da negligenza inescusabile” e “grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” proprio in relazione a procedimenti per abusi.

I 17 anni di inerzia – Gli episodi che fondano la decisione del Csm sono cinque. primo, il più grave, riguarda una segnalazione di violenze in famiglia ai danni di tre fratellini, arrivata sulla scrivania di Sinatra nel lontanissimo giugno 2003 e firmata dal “Gruppo operativo interistituzionale contro l’abuso e il maltrattamento all’infanzia” del Comune di Palermo. I minori coinvolti, sentiti nei mesi successivi, raccontano gli abusi con “dichiarazioni univoche e coincidenti“, “ritenute dal consulente (una psicologa infantile, ndr) nel complesso attendibili”, si legge nell’atto di incolpazione della Procura generale. Eppure la pm non iscrive notizie di reato e si dimentica il fascicolo per ben sette anni, fino al 5 novembre 2010, quando iscrive l’ipotesi di atti sessuali con minorenni. Ma “impropriamente” l’accusa resta a carico di ignoti, “nonostante la completa identificazione” dello zio e della zia, “soggetti indicati dalle vittime quali autori degli abusi, sin dal 9 ottobre 2003”. La vicenda però è ancora lontanissima dal concludersi: da quel momento passano “ulteriori dieci anni“, trascorsi i quali Sinatra “si limitava a richiedere l’archiviazione in data 26 maggio 2020, dopo più di 16 anni di totale inerzia investigativa, nonostante la assoluta rilevanza dei fatti denunciati in danno di minori in condizioni di grave disagio”.

Il processo per rifiuto d’atti d’ufficio – A quel punto la prescrizione dei presunti abusi è scattata da tempo e il gip può soltanto archiviare. Ma lo fa con motivazioni durissime: “Dagli atti emergono fatti di inaudita gravità, sussumibili quantomeno nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 609-quinquies del codice penale (corruzione di minorenne, ndr) e comunque assolutamente meritevoli di ulteriori approfondimenti“, scrive. E invece – rimarca – le testimonianze dei fratellini “non potranno mai più trovare sfogo in un processo penale per essere state di fatto “archiviate” dalla Procura”, poiché il fascicolo è stato “trasmesso a questo ufficio dopo 17 anni di totale inattività, quando il tempo ha ormai “cancellato” il reato ma non certo il dolore di quei ragazzini“. Su segnalazione del presidente della sezione gip, allora, il procuratore capo trasmette gli atti a Caltanissetta, dove la pm finisce imputata per rifiuto di atti d’ufficio e chiede di essere giudicata con rito abbreviato. Il gip nisseno archivia anche in questo caso l’accusa per prescrizione, ma scrive che la collega “ha deliberatamente, e senza alcuna plausibile giustificazione, deciso di “lasciare in disparte” la pratica, accettando tutti i conseguenti rischi, tra cui quello che, nelle more, il reato si prescrivesse”. La sentenza non è stata impugnata ed è diventata definitiva lo scorso 14 aprile. Per giustificare l’incredibile ritardo, Sinatra nel 2020 inviava all’allora procuratore Franco Lo Voi una relazione in cui affermava di aver valutato le dichiarazioni dei minori come inattendibili, dimenticandosi poi di chiedere l’archiviazione a causa dell’eccessivo carico di lavoro, e che, ad ogni modo, si era trattato di un episodio isolato nell’arco della sua lunga carriera.

Gli altri episodi – Le cose però non stanno affatto così: la pm infatti è stata condannata per quattro condotte analoghe. La prima: aver omesso per nove anni, dal 2011 al 2020, “qualsivoglia doveroso approfondimento” su una denuncia di stalking nei confronti di un padre pregiudicato, accusato di minacciare i figli di sei e 11 anni, nonostante i ripetuti solleciti. La seconda: aver chiesto soltanto il 30 novembre del 2020, “quando ormai il reato risultava già estinto per intervenuta prescrizione”, il rinvio a giudizio per un uomo imputato di violenza sulla nipote 14enne, reato segnalato dalla Questura il 18 ottobre del 2010, “nonostante la assoluta rilevanza dei fatti denunciati” e “le dichiarazioni rese dalla ragazza ritenute dal consulente nel complesso attendibili”. La terza: non aver svolto “alcuna attività di indagine con conseguente scadenza dei termini massimi della misura cautelare” disposta nei confronti di un uomo imputato di violenza sessuale e sequestro di persona. L’ultima accusa, infine, è di aver omesso, per circa sei anni, “di adottare qualsivoglia determinazione” in merito a un fascicolo in cui un sacerdote era indagato per abusi sessuali e maltrattamenti nei confronti di un 13enne, nonostante le indagini avessero permesso “la ricostruzione in dettaglio degli accadimenti a riscontro di quanto denunciato dai genitori”. La sentenza disciplinare potrà essere impugnata di fronte alle Sezioni unite della Corte di Cassazione.

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