“Ciao a tutti”, inizia Christian, laureando in infermieristica, presentandosi su Facebook per avere informazioni su come trasferirsi in Inghilterra per fare carriera. Greta, che invece è infermiera in Regno Unito già da un anno e mezzo, ora sulla piattaforma chiede consiglio sull’opportunità che le si è presentata di avanzare professionalmente con un master. Continuando a scorrere la pagina degli Infermieri italiani in UK e Irlanda, sono tanti i post di giovani come loro, italiani ma emigrati o in procinto di lasciare la patria per perseguire una carriera infermieristica più appagante Oltremanica. In Gran Bretagna ci sono 6,733 connazionali nel registro del personale sanitario britannico (ultimo dato ufficiale NHS Digital 2022) sul totale di 1.377.115 persone di oltre 200 diverse nazionalità. Di questi 1962 sono infermieri, 193 ostetriche e 1262 sono figure di sostegno ai 1102 medici italiani operativi nelle corsie degli ospedali inglesi. Così, mentre in Italia fa discutere il drastico calo di chi si iscrive ai test per infermieri (in 10 anni il numero si è dimezzato), si guarda a quello che succede in una meta da sempre molto ambita come la Gran Bretagna. Qui la Brexit sta scoraggiando i nuovi ingressi, ma il percorso professionale rimane comunque migliore di quello in patria.

Un viaggio a senso unico – “Mi sono trasferito a Londra nel 2015 perché ero ‘vittima del blocco del turnover’ in sanità. In quel periodo la Gran Bretagna era sulla cresta dell’onda ed è stato molto facile trovare lavoro anche con un livello di inglese non avanzato, ma accettabile”, racconta a Ilfattoquotidiano, Luigi D’Onofrio fondatore della Italian Nurses Society, un portale ufficiale della comunità infermieristica italiana in Gran Bretagna e Irlanda, che al suo apice ha toccato oltre 4000 persone. Luigi ci spiega che dalle sue ricerche personali, dal 2013 al 2019 la Gran Bretagna ha assunto quasi 10 mila infermieri connazionali, la comunità di infermieri italiani all’estero più grande al mondo”. Adesso la Svizzera è in lizza per il primato e la maggior parte dei nostri infermieri ha lasciato il Regno Unito, compreso lui, richiamato in patria per ragioni familiari. “Brexit ha creato una sorta di malumore di fondo, abbiamo dovuto avviare procedure burocratiche che prima non erano previste e passare test di inglese. Poi la tempesta perfetta si è avuta con la pandemia, la maggior parte di noi non ha visto le proprie famiglie per un anno, Covid ha aperto la porta per i rientri della maggior parte degli infermieri europei nei loro paesi d’origine”.

Brexit e Covid spingono la ritirata degli infermieri europei – Se il Covid dunque ha spinto gli infermieri europei a lasciare l’isola, la Brexit sta scoraggiando i nuovi ingressi. “Con la Brexit – dati dell’albo infermieristico inglese sulle assunzioni internazionali – il numero dei nuovi iscritti provenienti dall’Italia è sceso da dai 2132 nel 2016, a 145 nuovi iscritti nel 2021“, ci dice Stefano Pochetti, arrivato a Londra nel 2015 e che dal 2021 è arrivato nel management del programma di workforce dell’NHS (la sanità pubblica britannica) a livello regionale. “C’è stato un forte cambio di direzione dopo la Brexit per l’immigrazione in Inghilterra, ma è ancora una meta interessante per gli infermieri italiani perché, al contrario del nostro paese, qui la figura dell’infermiere specialista è molto presente in ogni disciplina, ci sono opportunità che in Italia non potremmo avere”, dice Luigi Andreoli (emigrato nel 2008) che lavora nel settore emergenze e arresti cardiaci dell’NHS, ed è il Presidente della dell’Italian Nurses and Midwives Association of the UK. La INaMA-UK è nata da un anno con lo scopo di riunire gli infermieri e ostetriche italiani che lavorano in Regno Unito: “Vogliamo essere un’associazione di gruppo e sviluppo carrieristico tra colleghi italiani che – dato di marzo 2022 – sono 3400”, dice Andreoli.

La maggior parte degli iscritti sono professionisti che già lavorano in UK ma l’associazione è anche un punto di riferimento per gli infermieri italiani che pianificano esperienze di lavoro Oltremanica. “E’ importante fare un’esperienza in Regno Unito, attraverso la nostra associazione cerchiamo di far capire che gli ostacoli introdotti con la Brexit sono tutti superabili – spiega Stefano – Lo scoglio più grosso è la conoscenza della lingua, perché serve la certificazione di un livello di inglese piuttosto alto che si consegue con due esami. Superato questo ostacolo, il percorso è in discesa perché questo paese ha un forte bisogno di infermieri ( ultimo dato: 46,828 richieste) gli ospedali hanno team dedicati alle assunzioni internazionali che guidano i candidati nell’ espletamento di tutte le burocrazie che non sono difficili”.

Da quasi un anno gli infermieri inglesi stanno issando picchetti per protestare contro salari non adeguati all’inflazione e condizioni di lavoro sempre più difficili come diretta conseguenza dell’esodo di operatori sanitari che decidono di abbandonare la professione. “Un posto su 10 è vacante, i finanziamenti sono insufficienti da anni e ora i salari degli infermieri a causa dell’inflazione hanno perso potere d’acquisto, questo in un momento in cui le persone vivono più a lungo e la richiesta di servizi sanitari arretrati è in aumento dopo la pandemia- lamenta Andrew Street, professore di Health Economics alla London School of Economics (LSE) – ci vogliono 7 anni per formare un medico e 3 per un infermiere, prima dipendevano dagli infermieri europei ma ora non possono più entrare come prima“.

Lucia Borgia, infermiera di origine siciliana, ci parla nel suo giorno libero mentre allatta il suo piccolo, il terzo dei suoi figli. All’inizio ha faticato a trovare lavoro, spostandosi in varie città inglesi per riuscire a far quadrare il bilancio familiare con il suo salario da infermiera, prima Bristol poi il nord dell’Inghilterra a Newcastle dove il costo della vita è più basso. Una volta entrata nell’NHS per lei è cominciata una scalata professionale ed ora è stata ammessa al tirocinio come assistente del chirurgo, nel team della sala operatoria che esegue trapianti di organi addominali, pancreas, fegato e reni: “In Italia la figura per cui mi sto specializzando io non esiste, già questo è un limite e poi per lavorare in ospedale del nostro paese, si deve fare un concorso, entrare in graduatoria, aspettare chissà quanto tempo ed è difficile cambiare reparto una volta avuto il posto. E’ anche difficile farsi una famiglia perché nel momento in cui sei una madre ci sono meno possibilità di carriera”, spiega Borgia.

Arrivato a Oxford dalla periferia di Roma, Flavio Mastroianni ha cominciato a lavorare in una casa di riposo ed ora è infermiere prescrittore (advanced nurse practitioner) dell’NHS e – ci spiega – può addirittura gestire medicinali, richiedere test diagnostici e interpretarli. “In Italia non vedevo un futuro – ci confessa Mastroianni – qui non si naviga nell’oro, il costo della vita è più alto e chi ha bisogno del visto per entrare (anche gli italiani) ora deve attenersi alle limitazioni degli sponsor, che possono imporre di rimanere a lavorare nella stessa struttura per qualche anno senza poter fare altri lavori. Io sto prendendo una seconda laurea che mi permetterà una progressione e più autonomia professionale. In Italia ci sono buoni corsi di laurea ma mi vedevo come dentro un buco nero perchè la mentalità è ancora indietro di 40 anni, un infermiere è ancora visto come quello che porta il pappagallo e fa le punture, anche se facciamo un serio percorso professionale e clinico. In Inghilterra invece un infermiere è considerato parte del team medico, è ascoltato e ha potere decisionale. L’italia dovrebbe comparare la carriera infermieristica che si fa in paesi come il Regno Unito, patria di Florence Nightingale, o in Australia e Canada, e prendere spunto per far evolvere la figura infermieristica, perchè se non si motivano e si fanno crescere professionalmente gli infermieri, che mandano avanti gli ospedali, chi ne risente è il paziente e l’intero sistema sanitario”.

Quale Eldorado per gli infermieri? – Il Regno unito non è più l’Eldorado per i nostri infermieri che optano sempre più per la vicina Irlanda (dove non serve visto d’ingresso), Svizzera, Arabia Saudita e Olanda, come ci confermano da Vitae Professionals, agenzia di recruiting in campo infermieristico con sede a Porto: “Negli ultimi 5 anni abbiamo riscontrato una crescita annuale di circa il 25% del numero di infermieri italiani che abbiamo collocato in Europa, solo nelle ultime due settimane abbiamo ricevuto 100 contatti. Al momento gli italiani costituiscono il 20% degli infermieri collocati dalla Vitae, sono molto attratti dalle proposte di lavoro all’estero perché le strutture offrono contratti a tempo indeterminato fin da subito, cosa che fanno fatica a trovare in Italia. Molti dei candidati che ci contattano rimangono positivamente “sorpresi” da questo fatto. Oltre che dagli stipendi e dalla possibilità di progressione di carriera”, spiega Eleonora Marinucci, recruitment consultant. Nuno Pinto, Direttore dell’agenzia spiega a IlFattoQuotidiano che gli infermieri italiani più qualificati optano per l’Arabia Saudita dove possono ottenere salari più alti e esenti da tasse, le ostetriche nello specifico scelgono l’Irlanda che storicamente assume italiani in questo settore, e stiamo anche assistendo a sempre più infermieri italiani che emigrano in Olanda attratti dalla qualità della vita. L’Italia è una meta molto appetibile per esempio per gli infermieri dell’Europa meridionale e del Sud America”. La soluzione al problema globale della carenza di infermieri però, secondo Pinto non è spostare infermieri da un paese dove sono carenti ad un altro, fomentando la migrazione di professionisti dai paesi più poveri verso l’occidente, bisognerebbe invece facilitare la formazione in loco.

Una “bomba ad orologeria” – Il problema è serio l’Organizzazione mondiale della sanità stima che al 2030 solo in Africa il buco di infermieri arriverà a 6,1 milioni, (+45% dal 2013). In Italia – dati Crea – mancano all’appello 30.000 medici e 250.000 infermieri e per colmare questa carenza, il nostro Paese dovrebbe investire 30,5 miliardi di euro. E farli rientrare in patria dall’estero?

“Più volte ho avuto colloqui con dirigenti della federazione nazionale che mi hanno chiesto quali sarebbero gli incentivi per far rimpatriare gli infermieri. Ho sempre detto che al di là della soglia psicologica dei 2000 euro dello stipendio, c’è la questione della progressione di carriera con competenze cliniche avanzate e dirigenziali – spiega Luigi D’Onofrio – Si sta cercando di tappare i buchi con la migrazione all’estero o cercando di livellare verso il basso, introducendo ad esempio la figura dell’assistente infermiere che possa svolgere le stesse funzioni dell’infermiere ma con meno competenze, meno formazione e a salario più basso. Così però non si dà qualità del servizio ai pazienti quindi lo scenario è abbastanza fosco”. Secondo D’Onofrio si tratta di una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in tutti i sistemi sanitari d’Europa, un problema complesso che riguarda le politiche del lavoro e dell’intera economia in un momento in cui è in aumento la popolazione anziana.

Uber degli infermieri – Nel frattempo, viene in soccorso la tecnologia con una serie di app, come Pulse Nursing at Home, che consentono di trovare professionisti sanitari, a pagamento.

A Londra quello che ha lanciato Mario Bucolo nel 2018 si chiama ufficialmente ‘Map a Nurse’ ma è già stato ribattezzato l‘Uber degli infermieri’, racconta Bucolo, perché collegandosi a un sito internet si può reperire l’infermiere più vicino al proprio indirizzo di casa. Niente a che vedere però con le agenzie, come quelle che ad esempio forniscono forza lavoro all’NHS per sostituire per i medici in sciopero arrivando a costi anche di £7.900 ( circa 9000 euro) a turno. “Siamo intermediari tra la richiesta del cliente e l’infermiere, che ha il vantaggio di poter raggranellare qualcosa in più (un’ottantina di euro a chiamata ) lavorando nella propria area di residenza, mentre il cliente può evitare di andare al pronto soccorso e di farsi anche 12 ore di anticamera per servizi di base come una medicazione o IVF” continua Bucolo. Che ai giovani italiani dice: “L’unico vantaggio della Brexit è stato che ha bloccato la spirale infernale di ragazzi che venivano in Inghilterra e finivano schiavizzati a lavare piatti nei ristoranti senza avere tempo di lavorare e studiare. Spero che adesso possano entrare molti giovani laureati perché quella dell’infermiere qui è una professione molto apprezzata e specializzata, sia nel pubblico che nel privato, con molta richiesta da parte di agenzie che possono facilitare la sponsorizzazione dei datori di lavoro”.

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