Da Nord a Sud, i dati sulla peste suina africana raccontano situazioni molto diverse. Basti pensare che, mentre in Liguria ci sono undici nuovi casi che fanno salire a 472 il numero di contagi dall’inizio dell’emergenza, ossia dal 27 dicembre 2022, la Regione Lombardia sta condividendo con il Governo Meloni un dossier con la richiesta di un allentamento delle misure restrittive in provincia di Pavia sulle carni degli animali inviati al macello. Proposta che sarà portata al vaglio delle istituzioni europee il prossimo 17 novembre. Eppure, nelle ultime ore, è stato lo stesso assessore regionale all’Agricoltura, Alessandro Beduschi, a dover ammettere: “Quella contro la Peste suina africana sarà una battaglia molto lunga”. E in Lombardia si trova la metà dei suini allevati in tutta la Penisola. L’Unione europea ha deciso di vietare fino al 18 novembre la movimentazione dei maiali in 172 Comuni della provincia di Pavia, ma anche di istituire la zona rossa nell’area del Parco del Ticino, dopo il ritrovamento nei giorni scorsi nella fascia territoriale del Pavese delle carcasse di quattro cinghiali contagiati. Su questo secondo fronte, spetta alla Regione preparare l’ordinanza con i divieti. E lo spostamento verso il Centro Italia è testimoniato anche dal primo caso registrato in Emilia-Romagna, con il governo regionale che ha prontamente convocato l’unità di crisi dopo il rinvenimento, in provincia di Piacenza, della carcassa di un cinghiale infetto.

La situazione tra Liguria, Piemonte e Lombardia – Gli ultimi casi, però, riguardano la Liguria. Stando ai dati dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale, nel giro di tre settimane si sono registrati trentadue contagi in più mentre, nello stesso periodo, in Piemonte il numero è stabile. Si è arrivati a quota 497. Gli undici nuovi casi liguri sono stati rilevati nella Città Metropolitana di Genova: due a Borzonasca, che portano il numero totale a cinque, quattro a Fontanigorda (dieci da inizio emergenza), uno a Neirone e quattro a Rovegno, che portano i casi rispettivamente a otto e quattordici nei due Comuni. Restano a quota 116 i Comuni dove è stata osservata almeno una positività alla peste suina africana. In Lombardia c’è molto fermento. La Regione parla di una situazione “favorevolmente stabile da circa un mese” negli allevamenti di suini, dove sono stati abbattuti (anche per “depopolamento preventivo”) circa 46.500 suini, “con l’ultimo dei nove focolai, tutti registrati in provincia di Pavia, verificatosi il 28 settembre”. L’assessore Beduschi ha annunciato che verrà proposto alla Commissione Ue di rimodulare le aree sottoposte a restrizione nel Pavese, così come chiesto dagli allevatori. Va ricordato che la Lombardia è la prima regione per numero di suini allevati, più di 4 milioni (quasi tutti maiali) in 6.625 allevamenti. Solo per la provincia di Brescia, l’Anagrafe zootecnica ne censisce 1.135.056 (dato aggiornato a giugno 2023) in oltre duemila allevamenti. Praticamente il numero di suini allevati è di poco inferiore a quello degli abitanti (1.266.000 al 2019, dato Eurostat).

La mappa del contagio e le zone da monitorare – Ma oltre al cluster più ampio, che comprende Lombardia, Piemonte e Liguria, ce ne sono altri. “Ce ne sono nel Comune di Roma, in Calabria e al confine tra Campania e Basilicata. Senza considerate la Sardegna, che ha una storia a sé, perché c’è da estinguere un’epidemia iniziata nel 1978 e in via di eradicazione, almeno in quella regione” spiega a ilfattoquotidiano.it Francesco Feliziani, responsabile del Laboratorio nazionale delle pesti suine. Ma qual è il rischio? “Che si ripeta ciò che è avvenuto negli ultimi mesi, ossia che la pressione del virus nel selvatico, comporti la sua introduzione negli allevamenti domestici, sia intensivi, sia familiari”. Sotto osservazione va tenuta anche la situazione a Roma, in Campania e Basilicata. “Qui il rischio è che ci sia un fuoco sotto la cenere e che non riusciamo a vedere la persistenza dell’infezione con i nostri sistemi di sorveglianza – spiega Feliziani – ma che il virus sia ancora presente”. È già accaduto proprio a Roma: “Pensavamo che la malattia si fosse estinta, ma dopo circa sei mesi è ricomparsa con una certa virulenza”. Insomma, il pericolo di nuovi focolai è spalmato in tutta Italia, ma ci sono delle aree che preoccupano più di altre. E non si tratta solo delle regioni dove in questo momento più colpite: “Teniamo sotto osservazione, in particolare, le zone al confine est del Paese, come il Friuli Venezia Giulia e tutto il confine con i Paesi balcanici, dove la peste suina è stata riscontrata, probabilmente c’è una sottostima dei casi rilevati e temiamo che il pericolo di introduzione dai Paesi balcanici verso l’Italia sia piuttosto alto”.

Cosa non ha funzionato in Lombardia – In queste ore, però, gli occhi sono puntati su quanto avviene in Lombardia, ancora di più dopo la messa in onda dell’inchiesta firmata da Giulia Innocenzi per Report, che racconta come la situazione sia stata gestita con diverse lacune e come si rischi tuttora di alimentare il diffondersi del virus, tra maiali e cinghiali. Feliziani fa parte del gruppo di esperti che aveva elaborato la strategia proposta nel 2022 all’Ue e spiega a ilfattoquotidiano.it cosa non ha funzionato. “Il piano prevedeva che, per prima cosa, le aree di contagio venissero circondate da recinzioni, ossia due fili di reti” racconta. Poi sarebbero seguite varie fasi di intervento: “Prima vietare la caccia per consentire al virus di ridurre la popolazione di cinghiali e, in un secondo momento, intervenire anche cacciando all’interno delle zone rosse”. Un modello applicato in Belgio e in Repubblica Ceca, ma che in Italia non è stato messo in pratica come proposto originariamente. “Per motivi economici e politici – spiega l’esperto – si è deciso di realizzare una sola rete e questa scelta ha azzoppato la strategia ideale proposta. Ci sono stati ritardi legati ai fondi e al fatto che la guerra in Ucraina ha fatto aumentare i costi delle materie prime. Quindi la strategia è stata applicata in ritardo e in maniera parziale”. Degli intoppi nella fase che riguardava le recinzioni, però, non si è tenuto in debito conto nelle fasi successive, compresa quella della caccia. “Siamo arrivati tardi e con un tracciato non in linea con quanto stabilito, dovuto a ritardi burocratici e incertezze. Naufragata quella strategia – spiega Feliziani – il governo ha deciso di applicarne un’altra, basata sul depopolamento, anche perché l’area interessata si era enormemente allargata rispetto a quando era stata pensata la strategia delle reti e ormai è oggettivamente molto complicato metterla in pratica”.

Cosa fare ora – Ma ora cosa si può fare per limitare i danni? “Non abbiamo modelli di riferimento già sperimentati. Almeno per quanto riguarda Liguria, Piemonte e Lombardia, dobbiamo per forza applicare degli strumenti del tutto nuovi, tenendo presente che in Europa, ovunque la malattia sia arrivata, è anche rimasta”. Non certo un buon auspicio. “In questo momento gli esperti suggeriscono di agire, frazionando l’area che si è venuta a creare, provando a ridurre progressivamente l’area infetta, con delle reti in territori più circoscritti e con altri strumenti, caccia compresa”. Ma non è ciò che è stato fatto finora? “Il modello è quello, ma questa volta l’idea è quella di creare delle piccole aree in modo da gestirle dalla periferia verso il centro. E per evitare ulteriori movimenti delle popolazioni di cinghiali – conclude Feliziani – si dovrebbe contenere la popolazione oggetto dell’azione e poi agire con strumenti come trappole o la stessa caccia. Evitando quella per braccata, maggiormente diffusa in Italia, perché provoca più dispersione e spostandosi su altri metodi”.

L’allarme emiliano – Intanto cresce l’allarme anche in Emilia-Romagna dopo il ritrovamento in Valboreca, lo scorso martedì, da parte di alcuni escursionisti, di un cinghiale nella zona di Pizzonero, al bivio per Suzzi, nel comune di Ottone. Come prevede lo stato di allerta presente da due anni, il gruppo ha subito segnalato l’ungulato morto alle autorità competenti: i veterinari dell’Ausl ha prelevato l’animale e ha effettuato tutti i test che hanno confermato la diagnosi, comunicata anche all’Atc. Così lunedì è stato deciso di convocare l’unità di crisi regionale e il Gruppo operativo territoriale per decidere se sarà necessario stabilire nuove misure per arginare la diffusione della malattia. In Emilia erano già presente alcune norme straordinarie di sorveglianza, prevenzione e controllo, con restrizioni per la caccia e la movimentazione dei suini allevati, poiché mesi fa erano stati rintracciati animali morti in Piemonte e Liguria, in prossimità dei confini emiliani.

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