Che l’aggressore e l’aggredito si determinino in un momento puntuale della storia è l’esito di una fotografia che cattura la realtà, ma – come tutte le fotografie – ne lascia fuori un pezzo. Se invece la storia è intesa come un susseguirsi di vicende concatenate, cambiano le premesse per un giudizio complessivo su di essa. Per comprendere, la fotografia è essenziale e non può essere obliterata; ma non basta: occorre attingere al flusso degli eventi, coi suoi salti e i suoi scossoni. Non dimenticando che anche l’interprete è trascinato in quel flusso.

Per contribuire a comprendere, anni fa avevo tradotto e proposto la pubblicazione di un saggio sulla politica israeliana di Tzvi Lamm, professore – scomparso nel 2004 – della Hebrew University di Gerusalemme. Ne discuteva il futuro Premio Nobel (lo avrebbe vinto l’anno successivo) Saul Bellow nel reportage sul proprio viaggio a Gerusalemme nel 1975. Lamm, ebreo, israeliano; Bellow, ebreo, statunitense. In Gerusalemme: andata e ritorno, Bellow scriveva che nel 1973, su un’“oscura rivista” (in realtà il saggio apparve anche l’anno dopo sulla celeberrima Dissent di Michael Walzer), Lamm aveva sostenuto lo slittamento del sionismo dal realismo all’ “autismo”.

Leggendo il saggio di Lamm, si scopre che l’autismo (parola che oggi non si può più usare in quei termini) significava la perdita di contatto con la realtà, l’appendersi a vuoti slogan dei dirigenti politici israeliani, dimenticando che Israele era nato per salvare gli ebrei, non per perseguire politiche irredentiste. Secondo Lamm – la storia del rifiuto di pubblicare questo saggio in Italia è di per sé significativa di come si precipiti verso posizioni chiuse e manichee – fu la Guerra dei Sei Giorni lo spartiacque. Scriveva Lamm: “La conquista di terre risvegliò dal torpore una risposta profonda, sincera ed emotiva ai territori conquistati e agli eventi storici che vi ebbero luogo: le tombe dei nostri patriarchi e delle nostre matriarche, percorsi lungo i quali i profeti camminarono un tempo, colline per le quali combatterono i re. Ma i sentimenti isolati dalla realtà attuale non servono come guida fedele a una politica confusa”.

Poi ci fu la guerra dello Yom Kippur, presentata in Israele come una “sorpresa” (non tanto e non solo una sorpresa per l’intelligence, ma una sorpresa politica): secondo Lamm, la prova della tesi di una chiusura ‘autistica’. Per Lamm lo Yom Kippur era stato propiziato proprio da quella perdita di contatto con la realtà che alimentava l’auto-percezione di Israele come seduto sui migliori confini possibili. Egli suggeriva di confrontare, nei tempi che precedettero lo Yom Kippur, le voci rassicuranti dei politici israeliani (molte) con le poche che avvertivano che il problema dei rifugiati arabi era un barile pronto a esplodere.

Cosa ci insegna Lamm, a cinquant’anni di distanza, sulla guerra in corso in Medio Oriente? Lamm sosteneva che “alla domanda politica fondamentale su ciò a cui fossimo disposti a rinunciare in cambio della pace, nessuno aveva una risposta, né il governo né l’opinione pubblica. In un qualche modo, prevalse una credenza magica che il tempo lavorasse a nostro favore, anche se per molti anni avevamo saputo che il nostro movimento nazionale era arrivato tardi e che aveva svegliato e sfortunatamente accelerato lo sviluppo del movimento nazionale arabo”. È, quella di Lamm, una domanda ancora attuale?

E Hamas, dal canto suo, a cosa è disposto a rinunciare? Da quale cupio dissolvi scaturisce la strategia suicida di lanciare missili e ammazzare civili, cose che non faranno che dare la stura all’ulteriore tentativo di un suo annientamento da parte delle forze incommensurabilmente più potenti d’Israele (con le conseguenze terribili sugli incolpevoli civili palestinesi) e al suo totale screditamento presso l’opinione pubblica occidentale? Corre, tra i meno adusi a comprendere che l’analogia storica è un materiale inservibile e incandescente, l’idea di paragonare la Shoah alla condizione palestinese. Una sciocchezza.

Ne fu vittima inconsapevole Primo Levi, a cui venne attribuito l’apocrifo secondo cui ognuno è l’ebreo di qualcun altro, e i palestinesi sarebbero gli ebrei di Israele. In Se non ora, quando?, Levi aveva fatto pensare al suo personaggio: “Perché ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi”. Ma non aveva sostenuto che i palestinesi fossero gli ebrei di Israele. Un’enormità mai detta, anzi esplicitamente ricusata: “rifiuto di assimilare quella che Hitler chiamava la soluzione finale con le cose pur violente e pur terribili che fanno gli israeliani oggi”. Né possiamo lambire un tale livello di tracotanza farci interpreti di cosa avrebbe oggi detto Levi.

Ma la domanda del giudice Hausner ai testimoni del processo Eichmann rimane, nel rifiuto dell’analogia, universale per tutte le vittime: “perché non vi ribellaste?”. Per Hausner era una domanda retorica, volta a segnalare la debolezza degli ebrei della diaspora rispetto alla ‘nuova gioventù di Israele’; qui si trasforma, non retoricamente: cosa è lecito fare al popolo palestinese oppresso per uscire dalla condizione di spossessamento e di violazione dei diritti?