Nel 1924 nasce l’Unione radiofonica italiana (URI), poi Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) nel 1927, poi Radio Audizioni Italiane (RAI) nel 1944 e infine Rai-Radiotelevisione Italiana nel 1954. Il 6 ottobre 1924 alle 21 iniziano le trasmissioni radiofoniche dell’URI, con il primo annuncio letto dalla cantante d’opera Ines Viviani Donarelli nello studio romano di palazzo Corrodi. Nel gennaio 1925 nasce anche Radiorario, rivista settimanale dell’URI che promuoveva il nuovo strumento radiofonico. Vennero aperte altre due stazioni radiofoniche, prima a Milano e poi a Napoli. Con il passaggio dall’URI all’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche nel 1927 si passa alla forma di società anonima per azioni, si crea un comitato di vigilanza sulle radiodiffusioni e, sebbene l’azienda fosse privata, si impone che, insieme alla concessione esclusiva di 25 anni, quattro membri del consiglio di amministrazione dovevano essere rappresentanti del governo e che lo statuto e le sue modifiche dovevano essere approvate dal ministro delle Poste e Telecomunicazioni.

Le radioaudizioni diventano poi uno strumento propagandistico importante per il regime, che dota ogni casa del Fascio di un apparato ricevente denominato radio popolare e sostiene la diffusione di apparecchi economici come la radio Rurale e la radio Balilla. Nel 1934 iniziano le prime trasmissioni televisive, prima in fase sperimentale, poi con regolare palinsesto dalle sedi di Milano, Torino e Roma a partire dal 1939. Durante la guerra e dopo l’armistizio dell’8 settembre l’EIAR rimane l’organo del regime nella Repubblica sociale italiana, mentre le stazioni radio di Palermo, Napoli e Bari, vengono occupate dagli alleati. L’EIAR, che prima aveva sede a Roma, come molti altri istituti culturali – tra cui Cinecittà – viene quindi spostata a Salò. Simbolicamente e per marcare il distacco dalla produzione culturale fascista, l’Eiar è chiusa concordemente dal Regno del sud e dal Comitato di liberazione nazionale e, il 26 ottobre del 1944, con decreto legislativo luogotenenziale nell’Italia liberata nasce la RAI (Radio Audizioni Italiane), che si dota anche di una propria casa editrice, la Edizioni Radio Italiana (ERI) e partecipa alla fondazione dell’Unione europea di radiodiffusione nel 1950.

Nel 1954, dunque, dopo l’introduzione del canone e diversi esperimenti di espansione, la RAI diventa Radiotelevisione Italiana e la mattina del 3 gennaio 1954 l’annunciatrice televisiva Fulvia Colombo da avvio alle trasmissioni televisive regolari del Programma Nazionale (l’attuale Rai 1). In modo forse più sottile e meno evidente rispetto al periodo fascista, lo strumento mediatico rappresentato dalla RAI ha quindi attraversato tutta la storia repubblicana, diventando specchio di equilibri politici e influenzandoli profondamente. Ne abbiamo parlato con Andrea Sangiovanni, professore associato di Storia Contemporanea presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Teramo e autore di Specchi infiniti. Storia dei media in Italia dal dopoguerra ad oggi (Donzelli, 2021).

Nel suo libro parla di “termini che sottintendono una sorta di naturalità dei mass media e che, più o meno implicitamente, finiscono per mettere in secondo piano il fatto che i mezzi di comunicazione di massa siano costrutti culturali complessi e storicamente determinati, prodotti dall’interazione tra invenzioni (o innovazioni) tecnologiche e processi industriali, modelli politico-istituzionali di gestione e controllo, linguaggi, codici simbolici e usi sociali”. Potrebbe approfondire?
Questa frase si riferisce soprattutto alle ragioni per cui credo sia importante fare storia dei media. È, infatti, diffusa la tendenza a vedere i media come qualcosa che, agendo nel quotidiano, si situa soprattutto nel presente o, al più, ci proietta verso il futuro. C’è molto meno una visione dei media declinata al passato, se non sotto una lente nostalgica. Tuttavia, è importante comprendere che i media non esistono in quanto tali, in modo “naturale”, ma sono costrutti culturali, prodotto dell’incontro tra molteplici fattori: dalla dimensione industriale e del profitto a quella tecnica; dagli aspetti politico istituzionali a quelli più strettamente culturali e legati alla produzione dei contenuti; dal peso di codici linguistici e modalità comunicative collettive, al ruolo degli individui nel declinarli e percepirli. I media sono strutture complesse e una lettura storica delle trasformazioni che hanno riguardato la comunicazione può permettere di meglio collocare e contestualizzare tutti quei cambiamenti, quelle polemiche, che continuano a caratterizzare i media italiani e la stessa Rai.

In questo senso, quali crede che siano stati i passaggi più importanti delle trasformazioni della Rai dal dopoguerra a oggi e che impatto hanno avuto sulla società italiana?
La questione va vista sotto prospettive differenti: tecnologica, politica e istituzionale, relativa al rapporto che si struttura con la società. Chiaramente queste trasformazioni si accavallano e intrecciano continuamente. Partendo da queste premesse possiamo provare a identificare alcuni passaggi fondamentali nella storia della Rai. Anzitutto, nonostante alcune precedenti sperimentazioni tra anni Trenta e Quaranta, il 1954 è una data spartiacque poiché la televisione inizia allora a entrare diffusamente nelle case degli italiani. Negli anni Sessanta, anni del centrosinistra e di maggiore apertura alla società, la televisione irrompe a tal punto nelle case degli italiani fino a porsi come nuovo baricentro mediatico, ossia cardine di riferimento dell’intero sistema mediatico. Tra 1972 e 1976 si ha l’apertura della stagione delle radio e della televisione più libere: si rompe il monopolio pubblico; nel 1984 subentra Mediaset e inizia la fase della televisione commerciale, le persone rivendicano il diritto all’intrattenimento. Inoltre, non si può non sottolineare il ruolo di Berlusconi a partire dal 1994 e quello della creazione della tv satellitare, fenomeno di massa dagli anni Duemila.

Quale è stato ed è tutt’oggi il peso politico della Rai? Come agisce?
Partendo da un punto di vista storico è importante sottolineare che c’è sempre stata un’attenzione politica agli aspetti della comunicazione. Il rapporto resta comunque complesso. Anche durante il fascismo, ad esempio, quando nasce la radio nel 1924, i contenuti trasmessi non son politici e propagandistici tout court. Lo stesso, in modo più sfumato, vale per la nascita della Rai e per le trasformazioni che la hanno riconfigurata nel corso degli anni, articolatesi tra tentativi di controllo diretto e volontà di creare uno strumento utile a esplorare la realtà variegata del Paese, senza pensare a un’uniformità necessaria o a narrazioni del tutto totalizzanti. Inoltre, va sottolineato che il pubblico non è un ricettore passivo ma sceglie e interpreta in modo plurale ciò che vede, un modo che non è sempre facilmente leggibile, anzi forse quasi mai.

Quale crede sia stata e sia la funzione dei media nella costruzione del mito nazionale?
Già a partire dal fascismo le trasmissioni radiofoniche hanno avuto un’importanza sostanziale nell’estensione dei confini tra diverse realtà presenti in Italia. Ad esempio, le popolazioni rurali o di provincia, ascoltando la radio, sentivano di fare parte di una comunità più larga. In questo senso i messaggi più recepiti non erano tanto quelli propagandistici quanto quelli musicali. Si ascoltava nelle proprie case la musica che si era sentita in città. Inoltre, la Rai, successivamente, ha diffuso diversi programmi di divulgazione e inchiesta e ha raccontato aspetti allora poco conosciuti: “La donna che lavora”, negli anni Cinquanta, è stata un’inchiesta molto significativa.

Sempre nel suo libro riflette sul fatto che una “storia dei media deve ambire anche ad essere una storia delle culture e delle mentalità diffuse, sia di quelle dominanti – che oggi chiameremmo mainstream – sia di quelle che una volta si definivano subalterne: si pensi ad esempio al ruolo che la cultura cosiddetta underground ha avuto nel definire la sensibilità e lo sguardo giovanile negli anni sessanta”. Dove trova oggi questi spazi alternativi?
Se dovessi fare questo tipo di ricerca credo che andrei a indagare i media personali di massa, TikTok ad esempio. In questi media c’è moltissima uniformazione del pensiero e dello stile ma emerge anche una sottotraccia di anomalie, difficili da individuare ma presenti. Questa difficoltà si lega pure alle modalità di funzionamento dell’algoritmo che direziona le ricerche. Tuttavia, credo potrebbe vale la pena cercare di condurre una simile indagine.

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Articolo 21 è al fianco di Report e del Fatto per difendere la libertà dei cronisti

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