Niente da fare, ancora una volta. Come anticipato dal Fatto Quotidiano il 19 ottobre, la Giunta per le Autorizzazioni della Camera, presieduta dal deputato di Azione Enrico Costa, ha respinto la richiesta del Consiglio Superiore della magistratura di poter utilizzare i nastri delle intercettazioni nel procedimento disciplinare nei confronti di Cosimo Ferri. La maggioranza si è pronunciata contro la richiesta del Csm, il M5S era per accoglierla, il Pd si è spaccato: Forattini a nome del gruppo era per dire sì ma è stata lasciata sola dai suoi. Orfini, Lacarra e Gianassi non sono venuti a votare perché non d’accordo con la linea. Devis Dori di Avs si è astenuto.

Il Consiglio superiore della magistratura, a settembre, aveva ordinato una nuova trasmissione degli atti alla Camera, dopo che la Consulta aveva stabilito che la Camera non poteva negare uso intercettazioni del deputato Cosimo Ferri al Csm. Cuore di questo scontro sull’utilizzabilità delle conversazioni intercettate la notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma. In quei nastri il giudice ed ex sottosegretario alla Giustizia, da deputato Pd in carica, disegnava strategie sulla scelta del futuro procuratore della Capitale insieme a Luca Palamara – allora potente leader della corrente Unicost -, all’ex ministro dem Luca Lotti (in quel momento indagato proprio a Roma) e a cinque consiglieri togati del Csm, a cui di lì a poco sarebbe spettata la nomina. Perciò la Procura generale della Cassazione lo accusa, dal lontano giugno 2020, di violazione dei “doveri di correttezza ed equilibrio”, di “comportamento gravemente scorretto” nei confronti dei colleghi e di “uso strumentale della propria qualità e posizione (…) diretto a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste”. Per queste stesse incolpazioni Palamara è stato radiato dall’ordine giudiziario e i cinque ex consiglieri condannati a lunghe sospensioni dalle funzioni e dallo stipendio.

Ferri all’epoca era parlamentare. E per sostenere l’accusa contro di lui è fondamentale la prova costituita dalle intercettazioni, disposte però nell’ambito di un’indagine nei confronti di Palamara (allora indagato per corruzione). Per questo, a luglio 2021, la Sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli aveva chiesto alla Camera l’autorizzazione successiva a utilizzarle nel procedimento in base all’articolo 6 della legge Boato sulle prerogative dei parlamentari, in quanto conversazioni captate “nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento”. A gennaio 2022 Montecitorio aveva risposto di no citando un’altra norma, l’articolo 4 della stessa legge, che richiede invece l’autorizzazione preventiva in caso di intercettazioni dirette verso un parlamentare. Secondo i deputati, infatti, le registrazioni del loro collega Ferri non erano state casuali, ma volute o comunque previste dall’autorità inquirente (la Procura di Perugia).

Contro questa tesi il Csm aveva sollevato conflitto d’attribuzione di fronte alla Corte costituzionale, che lo aveva appunto accolto con una sentenza depositata lo scorso 20 luglio: per i giudici della Consulta, “gli elementi addotti dalla Camera (…) non sono idonei a dimostrare univocamente” che i pm volessero intercettare Ferri tramite Palamara. E perciò, hanno ordinato, l’Aula dovrà esprimersi ancora una volta sulla richiesta del Csm, questa volta però in base all’articolo 6.

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