“Predica Berto che ti predichi-a-o deserto”. Così recita un detto ligure, dove per Berto si deve individuare l’apostolo Bartolomeo, incaricato di predicare il Vangelo in Arabia ed Armenia, ma con scarso successo. Ecco, il detto si può tranquillamente applicare all’Ispra e ai suoi report annuali sul consumo di suolo, report che con grande competenza e professionalità l’istituto (a supporto del Ministero dell’Ambiente, val la pena ricordare) pubblica ogni anno dal 2014. E ogni anno l’istituto redige una mappa non solo del consumo di suolo addirittura comune per comune, ma anche la tipologia dello stesso, in quali aree nello specifico si è verificato e le conseguenze sul territorio e il clima. Senza contare che sempre l’Ispra dal 2016 ammonisce che consumo di suolo significa altresì perdita per la collettività dei cosiddetti “servizi ecosistemici”, cioè la qualità delle risorse ambientali, perdita che può essere quantificata monetariamente.

Perché l’ISPRA assomiglia all’apostolo Bartolomeo? Perché ogni anno il suo rapporto ha registrato costantemente un aumento del consumo di suolo, nonostante le gravi conseguenze ben note a tutti (specie alla classe politica) che questo comporta, e specie in un paese come l’Italia fragile territorialmente. E il rapporto relativo all’anno passato che viene presentato oggi non sfugge a questa demenziale regola, anzi si passa dagli ormai famosi 2 metri quadrati al secondo consumati ai 2,4, il che significa in totale più di 77 chilometri quadrati di suolo, oltre il 10% rispetto al 2021. Ovviamente l’aumento non ha un colore politico specifico, estendendosi dalla pianura padana alla riviera romagnola, fino alla Puglia. In particolare la logistica e la grande distribuzione organizzata rientrano tra le principali cause di consumo di suolo, e nell’anno appena trascorso toccano il massimo dal 2006, con un picco di crescita superiore ai 506 ettari.

Le grandi infrastrutture rappresentano l’8,4% del consumo totale, mentre gli edifici realizzati negli ultimi 12 mesi su suoli che nel 2021 erano agricoli o naturali sfiorano i mille ettari, il 14% delle nuove superfici artificiali; 948 ettari (il 13,4%) in più per piazzali, parcheggi e altre aree pavimentate, mentre le aree estrattive consumano 385 ettari di suolo in un anno, pari al 5,4% del totale. Per l’installazione a terra di impianti fotovoltaici si sono resi necessari quasi 500 ettari di terreno, 243 dei quali rientrano nella classificazione europea di consumo di suolo.”

E l’Ispra sottolinea altresì come il consumo di suolo assuma aspetti anche criminogeni, in considerazione del fatto che oltre 2.500 ettari si sono consumati in aree a pericolosità sismica alta o molta alta e 530 ettari nelle aree a pericolosità da frana. E non v’è ragione di ritenere che il futuro possa riservarci un’inversione di tendenza, solo che si badi alle nuove linee AV ferroviaria previste, specie nel sud Italia e in Sicilia, nonché al Ponte sullo Stretto e a quello che esso comporterà. Intanto in Parlamento giacciono plurime proposte di legge sul contenimento del consumo di suolo, la più storica delle quali è quella che fu redatta dal forum Salviamo il Paesaggio e presentata ad inizio 2018 (!) dall’onorevole Paola Nugnes del M5S. Oggi, oltre a questa, ripresentata dall’onorevole Stefania Ascari sempre del M5S, ne giacciono un tot di altre, una delle quali persino dell’onorevole Gasparri (!).

Quindi è oltremodo facile prevedere che se mai una legge sul tema taglierà il traguardo sarà un pasticcio che consentirà di fatto di continuare come prima. Anche perché sicuramente ne resteranno fuori le cosiddette “opere di pubblica utilità”, in cui l’utilità in realtà consiste nell’utile di Webuild & C. e che rappresentano da sole una fetta consistente di consumo. Come ammoniva tempo fa lo stesso Ispra, “sebbene ecologia ed economia siano vocaboli con una radice comune (oikos = casa), storicamente esse hanno seguito percorsi divergenti e si sono contrapposte”.

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