“E ora ci sono autobus, che ci sorpassano, sputando fuori un denso fumo nero. Siamo subito superati da innumerevoli pedoni, questa strada è molto viva, gente vestita in modo curato, che procede in modo ordinato. Paul e io adesso abbiamo i nostri occhi puntati su ogni vetrina alla quale passiamo davanti, in particolare sulle catapulte, sui pupazzi spaziali, sui palloni da calcio, sui giochi da tavolo. Ho fame, papà. E ne ho anch’io. Mi chiedo quanti soldi gli siano rimasti in quel suo borsellino, dopo tutto il tempo che ha passato al bar”.

Il libro dei Gaeli, di James Yorkston (traduzione di Gianluca Testani; Jimenez Edizioni), è un originale romanzo di formazione che vede protagonista un ragazzino di dieci anni, Joseph, il quale, insieme al fratello minore Paul e al padre (e poeta) Fraser, parte da Creagh, nel sud-ovest dell’Irlanda, per un viaggio picaresco nel “Paese verde” degli anni Settanta. La marcia intrapresa dai tre vede come destinazione finale Dublino, città che Fraser vuole raggiungere dopo aver ricevuto una lettera che lo convoca lì per procedere alla pubblicazione dei suoi versi.

Quello intrapreso è un cammino fatto di difficoltà e crescita interiore. Senza soldi, con solo i vestiti che hanno indosso e una valigia malconcia contenente una camicia pulita e un fascio di fragili pagine dattiloscritte, James e i suoi famigliari, incontreranno personaggi bizzarri e situazioni che li metteranno a dura prova.

Ma quello che viene raccontato in Il libro dei Gaeli è anche il senso di perdita. La madre di Joseph e Paul, infatti, è morta nella laguna vicino a casa, lasciando ai suoi cari un dolore paralizzante e dando a Fraser la possibilità della redenzione attraverso la straziante raccolta di poesie che ha scritto (intitolata, appunto, Il libro dei Gaeli) come elaborazione del lutto.

“Il nostro conducente sta cantando, sebbene non riesca a capire le sue parole. Sono parole in lingua irlandese, la riconosco, ma Madre non è vissuta abbastanza a lungo da tramandarcela, ammesso che la parlasse, io l’ho sempre sentita usare solamente dalle suore. Mio padre sta ascoltando, senza dubbio all’oscuro di ciò che viene effettivamente cantato”.

Un’odissea disperata, figlia del lumpenproletariat gaelico, che richiama a un’Irlanda passata, dove l’alcool e le parole fungono da medicina contro il dolore, dove l’avarizia, l’abbandono e la speranza si fondono insieme tratteggiando un panorama umano, rurale e urbano di grande forza evocativa.

“Una, due ore dopo, Padre e il nostro conducente se ne stanno seduti attorno a un fuocherello, che brucia in un bidone di metallo marrone arrugginito, bevendo un liquido marrone, birra ovviamente, da vecchie bottiglie di latte, della stessa forma delle bottiglie di latte che abbiamo a casa. Paul e io ce ne stiamo seduti a una mezza dozzina di metri di distanza, a controllare, con le pance che brontolano ancora una volta, a chiederci se andremo avanti, se andremo via da qui”.

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