“Ti evito le rotture della coda”. Luglio 2023. Il primario del reparto di Oncologia medica del Giovanni Paolo II di Bari, Vito Lorusso, pronuncia questa frase nel suo studio, mentre intasca 200 euro dopo aver visitato un paziente. Qualche minuto dopo viene arrestato e qualche mese dopo licenziato. Perché quei 200 euro erano un modo per snellire la lentezza della burocrazia e le lunghe liste di attesa. Per la Procura di Bari, una tangente. Le indagini condotte per mesi attraverso telecamere e intercettazioni hanno scoperto una costante richiesta di denaro per velocizzare prenotazioni, iter burocratici e attese. Il tutto scoperto grazie alla denuncia del figlio di un suo paziente, poi morto.

Un episodio che è solo la punta di un iceberg rispetto a quanto sta emergendo dalle tre inchieste sull’Istituto tumori. Tangenti, furto di farmaci, droga, avvelenamenti. Ce n’è abbastanza per pensare alla sceneggiatura di un film. Se non fosse che è tutto, incredibilmente, vero. Il racconto che gli inquirenti tracciano è tanto più drammatico se si considera che si sviluppa tra disperazione e sofferenza. Per venirne a capo, occorre andare per ordine. Anzitutto sono due i medici finiti nell’inchiesta. Perché Lorusso non è stato il primo. Nel maggio 2021 a finire ai domiciliari è Giuseppe Rizzi. Ha intascato, in totale, due milioni e mezzo di euro per aver fatto pagare, ai pazienti oncologici, cure in realtà gratuite. La condanna, per lui, è a 9 anni. Ma quegli stessi reparti, dal 2014, erano diventati “un fornito supermercato”.

E qui si apre il secondo filone di indagine. Sei tra infermieri e operatori socio sanitari, secondo l’accusa, sottraevano farmaci e dispositivi per fornirli a parenti, amici o per poter svolgere lavori extra per arrotondare le entrate. O, come meglio spiegato nelle carte, per “incrementare il lavoro in nero”. La dinamica era più o meno questa: si andava in magazzino e si prendeva ciò che serviva. “La lista della spesa”, come commenta uno dei sei indagati quando gli viene commissionato dall’esterno l’elenco di farmaci da prendere. Farmaci che, a volte, venivano ceduti gratuitamente ma altre a pagamento. Cinquanta, 60, anche 90 euro a seconda di ciò che veniva richiesto. Uno dei più costosi raggiungeva i 540 euro – come racconta Repubblica Bari – venduto da uno degli infermieri che si presentava come “il referente pugliese della terapia Di Bella” con tanto di “prezzo di favore, 540 anziché 600”. Uno dei sei indagati, durante il periodo più complicato della pandemia da Covid-19, aveva messo in piedi un fruttuoso commercio di test che sottraeva all’oncologico e che rivendeva con offerte speciali “quattro tamponi a 100 euro, ma senza parlarne con nessuno”. Gli altri offrivano pacchetti analisi: dai 15 ai 50 euro con prenotazione presso il Cup, prelievo a domicilio, consegna del campione al laboratorio, ritiro dei risultati e consegna via whatsapp.

Si attingeva dai magazzini dell’ospedale per poi lavorare a casa dei pazienti, conosciuti in reparto, prendendo anche 50, 60 euro al giorno. E le famiglie non potevano che accettare. Interrogate dagli inquirenti, hanno ammesso di aver assecondato questa prassi perché bisognosi di un supporto a domicilio. A dare l’avvio alle indagini la denuncia di una infermiera. Le sei telecamere installate da aprile a giugno del 2021, nella cucina, nel magazzino, nella stanza della caposala e in altre zone del reparto, hanno permesso di raccogliere prove a sufficienza per far scattare, nel giugno, le perquisizioni a casa e nelle auto dei sei indagati, scoprendo decine di farmaci e dispositivi rubati. Oltre ai sei, sono coinvolte anche altre persone, ancora in corso di identificazione. I colleghi, intanto, sapevano, in molti casi vedevano e tacevano. Un atteggiamento definito dal gip, “di allarmante disinteresse”. E si arriva al terzo filone. Ancora non chiaro e definito. Perché tra i letti dei malati terminali veniva nascosta anche la droga.

L’episodio dal quale è scaturita la denuncia di cui sopra e, quindi, la successiva inchiesta, avviene nel marzo del 2019. La donna scopre tra gli scatoloni del deposito del reparto di Oncologia medica un pacchetto di chellophane con della polvere bianca. Pochi dubbi, tanto che un operatore socio sanitario aggredisce la donna intimandole di “farsi i fatti suoi”. Quel sospetto diviene nei giorni successivi una certezza, quando l’infermiera vede l’oss consegnare ad un infermiere un borsello, poi lasciato nella stanza dei malati terminali. All’interno di quel borsello c’era la busta di polvere bianca e 50 euro in contati. È da questo primo caso che, poi, viene scoperto il mercato nero dei farmaci. L’ultimo episodio che ha sconvolto l’istituto tumori Giovanni Paolo II, riguarda un avvelenamento. I fatti risalgono al 2017. Un infermiere, è emerso dalle indagini succitate, dopo aver bevuto una tazza di tè, inizia ad accusare dolori lancinanti tanto da rendere necessario un ricovero al centro antiveleni di Foggia. Di lì, la diagnosi. Quell’episodio ha causato nell’uomo insufficienza renale acuta, necrosi tubulare acuta, insufficienza respiratoria, emorragia cerebrale, sino a condurlo alla disabilità. Della vicenda non si conoscono molti dettagli, se non che l’uomo fosse ritenuto, da un collega, un “infame”. Le indagini sull’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari, non sono concluse.

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