Quello che doveva essere uno spiacevole episodio è diventato una imbarazzante consuetudine. E tutto in poco più di due anni. Esonero dalla Roma. Esonero dalla Sampdoria. Esonero dal Cagliari. Esonero dal Verona. Così a settembre 2021 Eusebio Di Francesco aveva visto la sua carriera restare appiccicata sulla carta moschicida del fallimento. La facilità con cui i suoi successori avevano centrato gli obiettivi aveva convinto tutti che il problema fosse proprio il tecnico abruzzese. La favola era capovolta. Il cigno si era fatto brutto anatroccolo, il tecnico italiano più interessante degli ultimi anni era diventato improvvisamente un brocco, come se qualcuno si fosse divertito a succhiare via dal suo corpo ogni goccia di talento. Il telefono del mister aveva iniziato a squillare più raramente. Anche perché di nuove offerte non ne arrivavano poi molte. Un momento di transizione che ha rischiato di cristallizzarsi in un finale poco lieto. Perché per il plot twist ci sono voluti addirittura due anni esatti.

In estate Di Francesco è ripartito dal Frosinone, club dell’estrema periferia del calcio italiano che si era guadagnato la Serie A dominando la cadetteria. E dopo otto giornate i ciociari sono riusciti ad arrampicarsi fino all’ottavo posto. Merito di una classifica pingue, fatta di dodici punti. Uno in più della Roma di Mourinho. Due in più della Lazio di Sarri. Tre in più del Torino di Juric. Un exploit nel breve periodo che per trasformarsi in impresa ha bisogno di dilatarsi fino a coprire un campionato intero. Ma in attesa di capire come andrà il futuro, Di Francesco può già fare pace con il suo passato. Per capire il suo presente, per comprendere le fondamenta di questo Frosinone, bisogna guardare ai due anni in cui il tecnico è stato fermo. Durante tutta la sua carriera, Di Francesco era così smanioso di raccontare le proprie idee che era finito intrappolato nella bolla di sapone del suo stesso modo di vedere il pallone. Borges diceva che “le più chiare prodezze perdono lustro se non vengono coniate in parole”. A Eusebio da Pescara è successo esattamente l’opposto. La frequenza con cui ha ripetuto l’espressione “il mio calcio” ha finito per annacquarne il senso, per neutralizzarne la portata. Niente trasforma le persone in personaggi come il calcio italiano. Un processo al quale Di Francesco non poteva certo sottrarsi. Fino a diventare il profeta di un verbo che nessuno voleva più ascoltare. Sembrava quasi che l’allenatore avesse innalzato a sistema quella frase di Sartre “lei pensa che sia una colpa vivere secondo le proprie convinzioni?”.

Quei due anni di silenzio Eusebio li ha riempiti con un’infinità di cose. “Li ho trascorsi aggiornandomi” ha detto alla Gazzetta. E ancora: “Ho apprezzato il lavoro di De Zerbi, interessante per l’identità che dà. Sono stato con la famiglia, ho giocato a padel. Ho fatto mea culpa: dovevo dare più intensità. Ho capito che rimuginare non aiuta. E ho appreso tanto dalla psicologia. Sono stati utili Mindset di Carol Dweck e Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman“. Ma il punto fondamentale è un altro. Di Francesco giura di essere diventato meno rigido, di aver imparato a smussare, a mediare, a correggere. I principi rimangono intatti. È la loro applicazione che può essere più sfumata. Ma c’è un’altra chiave che deve essere utilizzata per scoprire il Frosinone di Di Francesco. E ha le sembianze del direttore sportivo del Frosinone Guido Angelozzi, uno che con Eusebio aveva lavorato ai tempi del Sassuolo. E i risultati erano stati importanti. I neroverdi avevano battuto la Stella Rossa e l’Athletic Bilbao in Europa. E avevano valorizzato una lista più o meno sterminata di giovani talenti. Mentre Di Francesco è sul punto di accettare una proposta cinese Angelozzi bussa alla sua porta, come un fantasma del Natale passato che torna a fare visita al suo Ebenezer Scrooge.

Il ds mette l’allenatore sotto contratto. Poi chiama il presidente e gli dice di organizzare una cena. Vuole presentarli un candidato che potrebbe essere idoneo alla panchina del club. L’incontro viene apparecchiato ad Acuto, in un ristorante stellato. Quando Eusebio si alza per andare in bagno Stirpe è pienamente soddisfatto. Gli piacciono le idee del mister. Gli piace la sua voglia di rivincita. Gli piace il suo modo di vedere al futuro. Ma ancora non sa che in realtà Di Francesco ha già firmato il contratto. Il calciomercato estivo non è sempre coerente. Ma d’altra parte un piccolo club deve trovare i propri uomini di punta setacciando gli scarti altrui. È un principio che Angelozzi segue come una stella cometa. L’esborso per l’intera campagna acquisti è di 4 milioni di euro. Il resto sono prestiti di giocatori che devono rilanciarsi o che devono affermarsi in periferia prima di poter tornare in centro. Il risultato è la rosa con il valore di mercato più basso dell’intera Serie A. Ma anche la terza più giovane del campionato. Più che una falange oplitica sembra un’armata Brancaleone. Almeno fino alle prime giornate di campionato.

Il lavoro di completamento della rosa è stato lungo. Anzi, lunghissimo. Le direttrici più battute hanno portato a Sassuolo (sono arrivati in Ciociaria Harroui, Marchizza e Turati) e a Torino. Dalla Juventus sono arrivati Kaio Jorge, ma soprattutto un regista dal grande potenziale come Enzo Barrenechea e un’ala dalla tecnica affilata come Matías Soulé. Per il resto sono arrivati Okoli (dall’Atalanta), Mazzitelli (dal Monza), Lirola (Marsiglia), Ibrahimović (17 anni, in prestito dal Bayern), Reinier (Real Madrid), Cheddira (Napoli), Bourabia (Spezia), Romagnoli (Lecce) e Monterisi. Al resto ci ha pensato Di Francesco. Che è dovuto scendere a patti anche con se stesso. Il mister ha dovuto abbandonare l’idea di giocare con una difesa alta, a volte altissima, e ha dovuto rassegnarsi a difendere più basso, in modo da proteggere i suoi centrali difensivi, dotati di buona fisicità ma non molto veloci (soprattutto Monterisi, una delle sorprese di queste prime giornate, e Romagnoli). Il Frosinone punta a costruire la manovra dal basso, con un centrocampista che si abbassa fra i centrali per ricevere il pallone, ma non ne fa un dogma indiscutibile. In caso di necessità portiere e difensori possono anche lanciare lungo. Ed è qui che assume importanza una parola che Di Francesco ha ripetuto spesso in queste settimane: dinamismo.

Il Frosinone lotta sulle seconde palle, per riconquistare la sfera e ripartire. Eppure il dato più interessante di questa squadra è la tecnica. Il mister alterna 4-3-3 e 4-2-3-1, con Cheddira schierato come unica punta. Un ruolo che l’ex Bari interpreta in maniera molto particolare. Un po’ regista offensivo in grado di cucire il gioco, un po’ apriscatole per le difese avversarie. I suoi movimenti sono fondamentali per aprire spazio ai compagni. Soprattutto per Soulé, ventenne argentino che gioca esterno destro a piede invertito. Il ragazzo di proprietà della Juventus viene a giocare dentro il campo, tagliando verso il centro per provare a concludere in porta con il piede forte e aprendo la fascia alla corsa di Lirola. È un sistema che funziona a meraviglia. Soulé, infatti, è per distacco il miglior dribblatore del campionato (3.7 dribbling completati a partita, Khvicha Kvaratskhelia è fermo a 2.1) ed è il secondo giocatore della Serie A per numero di occasioni create a partita (2.8). Un volume offensivo enorme dal quale finora l’argentino ha capitalizzato due gol e un assist (oltre ad aver colpito due pali). L’arrivo sulla trequarti di Reiner è destinato ad aumentare ancora il livello tecnico della squadra. La partita contro il Verona è stata impressionante. Cheddira, Reiner e Soulé riescono sempre a dialogare nello stretto, a chiudere triangoli, a saltare l’avversario. Le prossime trenta giornate diranno se il Frosinone è stato una stella effimera o è riuscito a brillare fino a trasformarsi in una certezza. Ma la prima risposta sembra essere già arrivata. Perché Eusebio Di Francesco ha ritrovato se stesso.

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