scritto in collaborazione con Alessio Petronelli

Fino a pochi anni fa le lotte contro il surriscaldamento globale erano viste come il capriccio, spesso fastidioso, scelto come hobby da sparuti gruppi di attivisti, fautori di un moderno memento mori che alle orecchie delle persone doveva ricordare il predicatore di sventura incontrato da Troisi e Benigni nel film Non ci resta che piangere.

Oggi la situazione è cambiata, la crescente consapevolezza sul tema della crisi climatica spinge sempre più persone a interrogare i leader dei propri paesi e chiedere una società fuori dal fossile, principale cause dell’ebollizione globale, definizione coniata recentemente dal Segretario Generale dell’Onu António Guterres. È proprio questo forse il valore aggiunto in questa nuova fase delle lotte per il clima: se da un lato figure istituzionali di estremo rilievo si fanno portavoce delle battaglie per l’uscita dal fossile, dall’altro emergono le denunce di categorie apparentemente defilate rispetto a determinati argomenti, ma in prima linea tra coloro che ne soffrono le conseguenze.

La mobilitazione internazionale Global Fight to End Fossil Fuels, andata in scena in oltre 60 paesi per una partecipazione di oltre 600mila persone, ha visto manifestare una moltitudine variegata di soggetti, partendo dai pompieri e dagli agricoltori, passando per medici, sindacati e unioni religiose, fino ai movimenti attivi nelle lotte per il clima.

Si tratta del segnale di una nuova sensibilità diffusa trasversalmente nel mondo: il progresso industriale fine a se stesso non può rappresentare la stella polare nelle politiche nazionali, specialmente se prospera peggiorando la vita delle persone. Proprio le persone sono il centro di questo nuovo umanesimo climatico. Qual è il senso di un modello energetico che vede multinazionali registrare profitti spropositati e che al contempo danneggia il clima? Dov’è il beneficio per la collettività, se la collettività stessa paga il prezzo di questo sistema?

Davanti a queste evidenze il problema potrebbe sembrare collegato ai complicati equilibri tra interesse pubblico e privato, ma la realtà è ben più preoccupante: sono gli stessi Stati sovrani ad alimentare l’industria del fossile, garantendo l’erogazione di incentivi sempre più alti. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, l’Italia ha speso solo nel 2022 oltre 63 miliardi di dollari in sussidi ai combustibili fossili, che equivalgono a circa mille euro spesi da ogni cittadino italiano. A livello internazionale spendiamo il 7.1% del Pil mondiale in incentivi ai combustibili fossili, per una cifra che supera i 7.000 miliardi annui. Per rendere l’idea di quelle che, numeri alla mano, risultano essere le priorità dei leader internazionali, i finanziamenti per l’istruzione si fermano solo al 4.3% del Pil mondiale. Il futuro e la formazione dei nostri figli valgono meno degli interessi di poche multinazionali?

Anche le città italiane hanno visto sfilare i colori della mobilitazione internazionale, tra cortei, eventi di piazza, performance artistiche e sit-in davanti le raffinerie di Eni. Proprio l’azienda del cane a sei zampe è risultata il bersaglio delle proteste andate in scena nel nostro paese.

Oil Change International fornisce numeri allarmanti in merito all’azione di Eni. La multinazionale infatti, finanziata e controllata per oltre il 30% dallo Stato italiano, potrebbe addirittura arrivare al terzo posto al mondo tra le società per sviluppo di attività legale al fossile nel 2023. Se da un lato Eni investe massicciamente per pubblicizzare Plenitude come soluzione per portare avanti una presunta transizione ecologica, dall’altro programma di aumentare del 3-4% ogni anno fino al 2026 gli investimenti in nuove attività estrattive. Solo nel 2022, sempre secondo Oil Change International, Eni ha generato emissioni di CO2 pari a 419 milioni di tonnellate. In altre parole, da sola produce più inquinamento dell’Italia intera. Tutto questo è reso possibile anche grazie ai soldi della popolazione italiana: parte importante dei mille euro che ogni cittadino spende in sussidi fossili viene destinata proprio a finanziare le casse di Eni.

Non è un caso quindi che l’ultimo evento che ha chiuso la campagna italiana di adesione alla mobilitazione globale sia stato organizzato a Gela. La località siciliana, sede del polo petrolchimico, conduce sulle proprie spalle uno storico carico di degrado e malattie legate all’inquinamento ambientale. Come se non bastasse, Gela fa i conti con l’impatto di pesanti attività marittime, rappresentando oggi un porto strategico nell’importazione di combustibili fossili nell’area del Mediterraneo. Un contesto di stress che non ha portato ricchezza né benessere per la vita delle persone, e che rappresenta ormai da anni motivo di sofferenza, mentre le aule di tribunale scandiscono il tempo che passa e aumenta il ritardo per le bonifiche del territorio, attese ormai da anni.

All’ombra della raffineria di Eni, nei giardini pubblici cuore della città, è andato in scena un concerto evento, al grido “fuori dal fossile”. Quale migliore reazione alla distruzione e all’ingiustizia, se non la speranza per un futuro migliore? Quale migliore reazione se non la bellezza della musica, l’unione di una comunità ferita che non abbandona il desiderio di vivere, e non soltanto sopravvivere?

La riposta di Gela rappresenta lo spirito stesso della mobilitazione internazionale, rappresenta la denuncia e la speranza. I mille euro a testa che spendiamo in Italia in sussidi ai combustibili fossili potrebbero essere destinati per sostenere la sanità pubblica e curare chi ne ha bisogno, oppure per finanziare il settore dell’istruzione e garantire la formazione di sempre più bambini. C’è speranza per un futuro libero dal fossile, c’è speranza per un futuro in cui i nostri figli non debbano fare i conti con una società fatta soltanto di povertà, malattia e ignoranza.

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