di Simona Moscarelli*

La situazione che sta vivendo Lampedusa non è nuova. Già nel 2011, a seguito della primavera araba, l’isola si trovò a ospitare 10mila persone. Allora si trattò di un flusso inaspettato; oggi però il fenomeno non può più sorprendere, anche perché i numeri non sono particolarmente significativi se si guarda alle recenti crisi di Siria e Ucraina. Nei primi mesi della guerra, i paesi europei aprirono le porte a oltre cinque milioni di ucraini senza che nessuno urlasse all’invasione. Come possono, allora, metterci in crisi gli arrivi di questi giorni?

La verità è che i cittadini ucraini non rimasero bloccati in centri sovraffollati. Grazie all’accordo dei paesi dell’Unione, poterono decidere in che paese europeo stabilirsi. Nel 2022, al confine tra Polonia e Ucraina, in un corridoio di un centro commerciale pieno di bandiere europee, le famigerate Ong organizzavano, con la benedizione dei Paesi membri, viaggi gratuiti per Francoforte, Parigi, Madrid. Sembrava che l’Europa avesse imparato dagli sbagli del passato quando, pochi anni prima durante la crisi siriana, un milione di persone fu costretta a raggiungere a piedi la propria meta tra filo spinato, cariche della polizia e sgambetti dei giornalisti.

Cosa ci impedisce ora di avere adesso lo stesso approccio? Non volendo pensare male (per esempio che la gradazione della pelle o la professione di una certa religione c’entrino qualcosa) i più risponderanno che si tratta di una situazione diversa, di migranti economici. Ma siamo sicuri che sia proprio così? E non è forse giunto il momento di superare le etichette di “rifugiato” e “migrante economico” e rivolgere lo sguardo alla disperazione e alla speranza che spinge esseri umani a partire in questo modo? Non sarebbe ora di riconoscere che paesi che hanno tratto vantaggio da un passato di colonialismo politico ed economico hanno una responsabilità? Che siamo tutti coinvolti e che queste persone hanno delle aspirazioni legittime?

Personalmente, anche impegnandomi, non riesco a trovare alcuna differenza tra un bimbo ucraino che arriva in autobus e uno della Costa d’Avorio che viaggia su un gommone. L’obiezione più comune è che bisogna trovare delle soluzioni nei paesi di origine. Giusto, se non fosse che chi voleva “aiutarli a casa loro” ha finito col finanziare per lo più sistemi di controllo delle frontiere, cioè muri, filo spinato e attrezzature che certamente non hanno contribuito allo sviluppo di quei Paesi. E allora, come porre fine a questa situazione? La risposta è di una banalità sconcertante.

In primo luogo, bisogna trovare un’alternativa valida. Oggi, entrare in modo legale per lavoro in un Paese dell’Unione è praticamente impossibile. I criteri per i ricongiungimenti familiari sono sempre più rigidi e i permessi per studio concessi con il contagocce. Bisogna cambiare completamente paradigma. Ciascuno dei Paesi dell’Unione deve aprire canali regolari a scopo lavorativo. Visti che permetterebbero agli Stati di avere un controllo sull’identità degli individui (e di rimpatriare facilmente chi viola le loro leggi) e ai migranti di essere finalmente tutelati. La presidente Meloni ha varato un decreto che faciliterà l’ingresso di oltre 400mila migranti per lavoro, ma l’Italia da sola non può andare lontano.

Serve una volontà comune, quote di ingresso per ricerca lavoro in ogni Paese dell’Unione. È urgente superare il famigerato regolamento di Dublino e permettere ai rifugiati di decidere in quale paese europeo stabilirsi. È necessario organizzare una missione di salvataggio europea perché salvare vite umane è un dovere degli Stati. Bisogna dichiarare guerra a chiunque approfitti della situazione di vulnerabilità dei migranti, perché nel 2023 ghetti come quello di Borgo Mezzanone sono una sconfitta. Occorre infine evitare i mega centri e investire sull’accoglienza decentrata e sull’inclusione sociale dei migranti, perché se vogliamo costruire una società più giusta non possiamo continuare a seminare marginalizzazione. Quello a cui stiamo assistendo è un processo irreversibile e quanto prima lo riconosceremo tanto meglio sarà. Le migrazioni sono qui per restare, quello che deve cambiare è l’approccio al tema, che non può più essere ideologico perché ne va della tenuta dell’Europa.

La pandemia dovrebbe averci insegnato che sfide globali richiedono soluzioni condivise. La mera difesa dei confini rallenterà, forse, ma non fermerà chi vuole dare un futuro migliore ai propri figli. Del resto, non fermerebbe neanche me se fossi nata da quella parte del mondo.

*Si occupa di migrazione e di protezione di gruppi vulnerabili dal 2000 e ha lavorato in Italia e in Grecia

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