Un recente editoriale sulle barriere linguistiche (Science’s language barrier, Nature, 570: 265-267) merita una riflessione che supera i confini del mondo scientifico. Confesso che sapere un po’ d’inglese ha facilitato oltremodo la mia vita professionale. Frutto del caso e della ferrea volontà materna che mi costrinsero a imparare a leggere e scrivere in italiano e inglese assieme, assai prima delle elementari. Mai ho studiato l’inglese per davvero, pur essendo corredato di alcuni degli attestati d’ordinanza, e mi spiace parecchio. Sono però in grado di leggere e scrivere articoli e libri, perfino testi di canzoni. E pure di capire chi mi parla, soprattutto se l’interlocutore lo fa lentamente scandendo le parole, a differenza di quanto accade nei film dei nostri giorni, tanto inglesi quanto italiani: non apprezzo i dialoghi serratissimi, la musica iper-compressa di sottofondo, il brickwall fonico sul master senza pietà per gli anziani.

La carriera scientifica attira persone in tutto il mondo e, sovente, le concentra nei paesi anglosassoni. Ricercatori europei, asiatici, latino-americani e africani devono discutere le loro idee ed esprimere le loro scoperte in inglese. Una lingua dominante può semplificare il processo dello sviluppo scientifico, ma crea barriere ed espone al rischio di conflitti. C’è perfino chi ha rimproverato gli studenti cinesi per aver parlato tra loro nella lingua madre, lo ha fatto un docente di statistica della Duke in Carolina del Nord. A me capitò a lungo, senza patire troppo; anzi, per parecchi anni, un assistente cinese ha concretamente aiutato a migliorare la mia relazione con gli allievi orientali.

Tra le sette interviste riportate nell’editoriale, colpiscono le considerazioni di uno zoologo giapponese: “la predominanza dell’inglese ha creato notevoli distorsioni nella documentazione scientifica; in uno studio del 2013 pubblicato nei Proceedings della Royal Society, abbiamo scoperto che i database sulla biodiversità erano più completi nei paesi che avevano una percentuale relativamente alta di anglofoni”. Invero, se i dati sulla biodiversità sono scarsi e scadenti dove l’inglese è poco praticato, il nostro sapere sulla biodiversità terrestre è molto meno solido di quanto si creda.

Il successo dell’inglese nasce dalla sua grammatica elementare, con plurali semplici, una coniugazione dei verbi molto diretta, per lo più neutrale rispetto al genere. Anche il vocabolario inglese è facile da imparare: non fa testo il globish ostentato da politici e papaveri italiani, tra il ridicolo e il macabro. L’inglese ha una musicalità straordinaria, è una piattaforma perfetta per la musica moderna. È la lingua degli affari e del commercio, la lingua preferita dagli scrittori di tutto il mondo, il linguaggio espressivo dei media e dell’intrattenimento, hollywoodiano o bollywoodiano che sia.

Mi chiedo se un’altra lingua soppianterà mai l’inglese. Ne dubito, pur se l’inglese globale rappresenta una evidente anomalia. L’umanità non ha mai avuto un linguaggio universale, e non credo che succederà nuovamente se il globish sfiorirà. In futuro — forse già in questo secolo — la scienza potrebbe dividersi in due o tre lingue: inglese, cinese e magari lo spagnolo, oppure l’arabo. Se ci esprimeremo attraverso il filtro dell’Intelligenza Artificiale, ognuno parlerà nella propria lingua o nel proprio dialetto, tradotto simultaneamente. Una o più lingue comuni sono però indispensabili alla tecnologia stessa, se già ora ChatGPT risponde ai quesiti in inglese in modo assai più esauriente e articolato rispetto a quelli posti in italiano.

Nel frattempo, l’inglese rimane una lingua ufficiale dell’Unione Europea, nonostante il Regno Unito ci abbia abbandonato. Rimane la lingua di lavoro delle istituzioni europee, elencata come tale nel regolamento; ed è anche una delle lingue ufficiali di Malta e Irlanda, ma non la loro lingua nazionale, che sono il maltese e il gaelico, la prima neolatina e la seconda celtica. Fa tenerezza ascoltare la conferenza stampa della presidentessa della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nell’aeroporto di Lampedusa durante la crisi dei migranti. Per contro, difficilmente i Brics e il resto del mondo che mette in discussione un tabù come il dollaro accetterà l’inglese universale, tanto meno l’orrendo globish dell’Unione Europea. Ma, in pratica, come potranno farne a meno?

Anni fa ho scritto un editoriale per un giornale giapponese, lo Yomiuri Shimbun che tira nove milioni di copie due volte al giorno. Trattava il crollo di ponte Morandi a Genova, subito dopo l’evento. Sarebbe stato un pezzo troppo lungo per qualunque giornale italiano, perfino per un post su questo blog. Non ho controllato se la traduzione pubblicata fosse completa, evidentemente, ma la sintesi che consentono i logogrammi è sublime: occupava uno spazio ridottissimo (v. Figura 1). Un mio vecchio libro, piratato e stampato in cinese, è spesso la metà dell’originale pubblicato da McGraw-Hill, nonostante sia un testo di statistica con sei o sette formule matematiche per pagina. E quelle non si traducono!

Insomma, la spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua che la spada, come ci ricorda la Bibbia nel Libro del Siracide (28:18). Per prudenza, ho appena firmato con un editore internazionale il contratto per il mio prossimo libro, in lingua inglese. È un testo divulgativo che, peraltro, sto scrivendo in inglese e italiano, assieme. L’editore ha risposto positivamente alla mia richiesta di conservare i diritti della versione italiana, che conto di pubblicare autonomamente come feci anni fa per Morte e resurrezione delle università (v. Figura 2). Senza diminuire la pattuita quota di diritti: sospetto che il mercato italiano non sia molto attraente.

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