Dopo la caccia all’uomo, il fuoco incrociato di accuse. Proseguono le tensioni in Kosovo dove si cercano gli uomini del gruppo armato che domenica 24 settembre ha ucciso un poliziotto e ne ha feriti altri due in un attacco avvenuto nel villaggio di Banjska, a 55 chilometri dalla capitale. Una parte degli aggressori, che secondo il premier kosovaro Albin Kurti sono “professionisti del crimine” di etnia serba, sarebbe riuscita a fuggire dopo essersi barricata in un monastero e aver resistito a una sparatoria con le autorità locali durata diverse ore.

Ora Pristina punta il dito sulla Serbia, accusando Belgrado di stare nascondendo i responsabili dell’attentato di Banjska. “Negli scontri nessun civile è rimasto ferito, mentre stando alle informazioni disponibili sei terroristi feriti sono ricoverati a Novi Pazar. Chiediamo alla Serbia di consegnarli subito alle autorità del Kosovo. E chiediamo al tempo stesso a Belgrado di consegnare tutti i componenti del gruppo armato eventualmente fuggiti in Serbia”, ha detto il ministro dell’Interno kosovaro Xhelal Svecla in una conferenza stampa.

Dopo l’assedio al monastero le autorità kosovare hanno sequestrato armi, mappe e planimetrie relative al piano dell’attacco di domenica. Secondo il ministro degli Interni, ci sarebbero anche documenti che provano la partecipazione all’azione armata di Milan Radojcic, vicepresidente del partito di rappresentanza della comunità serba, Srpska Lista, che ha legami storici con Belgrado. “Tali carte e documenti dimostrano che non abbiamo a che fare con gruppi locali ma con organizzazione terroristiche”, ha affermato Svecla, facendo eco alle parole del premier che aveva parlato dell’attacco come di un atto di “criminalità organizzata con il sostegno politico, finanziario e logistico dei responsabili ufficiali di Belgrado”.

Pronto il diniego da parte della Serbia che ha commentato sottolineando che i serbi presenti in Kosovo sono “stanchi del regime di terrore di Kurti”. Sulla stessa linea anche la Russia, che come dichiarato dalla portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, citata dall’agenzia Tass, ritiene l’escalation in Kosovo una “conseguenza diretta” della politica del primo ministro kosovaro-albanese e ha accusato Kurti di “pulizia etnica” dei serbi. “Kurti ha incitato al conflitto e a liberare il territorio della regione dai serbi in un continuo gioco con il fuoco che, come vediamo, porta l’intera regione balcanica sull’orlo del baratro”, ha affermato Zakharova. Secondo l’ambasciatore russo in Serbia, Alexander Botsan-Kharchenko, la violenza delle autorità albanesi del Kosovo contro i serbi avviene invece con “l’incoraggiamento dell’Occidente” e “tutto ciò che viene chiamato sforzo politico e diplomatico viene fatto formalmente dal mondo occidentale, il cui obiettivo è quello di consentire a Pristina di stabilire il controllo completo su tutto il territorio della regione con questa presenza internazionale delle cosiddette forze di pace”.

Rimane ferma la condanna sull’attacco nei confronti della polizia kosovara da parte della comunità internazionale e in particolare degli Stati Uniti, che hanno invitato Belgrado e Pristina a ridurre le tensioni. Il segretario di Stato statunitense Antony Blinken ha dichiarato che “gli autori di questo crimine devono essere ritenuti responsabili attraverso un processo investigativo trasparente”. Lo scorso maggio alcuni militari della missione di pace Nato Kfor erano rimasti feriti durante le proteste dei cittadini di etnia serba nelle cittadine a guida albanese.

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