Lo schiaffo ucraino al Papa è stato duro. Inutile, da parte ecclesiastica, tentare di nasconderlo. Le parole sono sempre pietre. “Non ha senso parlare di un mediatore chiamato Papa – ha dichiarato il consigliere presidenziale ucraino Mikhailo Podolyak – se questi assume una posizione filorussa… Se una persona promuove chiaramente il diritto della Russia di uccidere i cittadini di un altro paese…sta promuovendo la guerra… Il Vaticano non può avere alcuna funzione di mediazione: ingannerebbe l’Ucraina o la giustizia”. Uno schiaffo pesante e – nelle intenzioni – umiliante. Condito, nel discorso di Podolyak, dall’accusa che la banca vaticana detiene rilevanti investimenti russi. Cosa che lo Ior ha gelidamente respinto come falso. Nelle ultime generazioni non si era mai assistito a qualcosa di simile.

Se lo “schiaffo di Anagni”, inferto a Bonifacio VIII da Sciarra Colonna al servizio del re di Francia, portò il pontefice alla morte dopo poche settimane, non è detto che lo schiaffo di Kyiv seppellisca la strategia di pace del cardinale Zuppi. C’è qualcosa nella violenza dell’attacco personale a Francesco, che mostra le tracce di un crescente nervosismo della leadership ucraina. La sua paura per un clima internazionale che sta cambiando. “Bisogna smettere di pensare che sia possibile o importante negoziare con la Russia”, reagisce Podolyak.

Il Vaticano non si arruolerà sotto le bandiere ucraine nel conflitto con la Russia. Non si arruolerà perché dopo Pio XII la Santa Sede ha imboccato la via del netto rifiuto delle guerre sante internazionali. Non è questione di Francesco e di qualche inopportuno svolazzo retorico nei suoi discorsi. Giovanni Paolo II era contrario alla guerra in Afghanistan. Giovanni Paolo II ha contribuito con una mobilitazione diplomatica senza precedenti affinchè il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite rifiutasse di dare la sua approvazione all’attacco di Stati Uniti e Gran Bretagna all’Irak,
Francesco prosegue la politica di una Santa Sede da sempre attenta allo scacchiere planetario, una politica che specialmente oggi non può fermarsi alle parole d’ordine che il governo di Kyiv vorrebbe imporre come dogma. Una politica che non può neanche fermarsi al recinto Nato delle nazioni bianche dell’emisfero settentrionale.

C’è un globo in movimento che è stanco del conflitto in Ucraina e non ha nessuna intenzione di arruolarsi sotto le bandiere di Putin o di Zelensky.

Francesco con i suoi appelli al cessate il fuoco – anche domenica ha ribadito la necessità di “opporre alla forza delle armi quella della carità e alla retorica della violenza la tenacia della preghiera” – interpreta il sentimento della maggioranza degli italiani. E questo Kyiv lo sa. Ma non basta. Francesco interpreta anche la stanchezza e l’inquietudine diffuse sotto traccia in Europa occidentale, dove esponenti politici e diplomatici – pur rimanendo attualmente silenziosi – temono gli sviluppi imprevisti di un conflitto che coinvolge una potenza nucleare come la Russia. Francesco interpreta persino lo stato d’animo di una consistente parte dell’imprenditoria europea, che – pur evitando di venire allo scoperto – non vede l’ora di chiudere un conflitto, che ha già danneggiato per oltre cento di miliardi di euro le imprese del continente.

Soprattutto Francesco colloca la Chiesa di Roma dalla parte dinamica della storia del XXI secolo. Se Paolo VI, con l’enciclica Populorum Progressio, collocò la Chiesa dalla parte del movimento di decolonizzazione, il pontefice argentino situa oggi la Santa Sede fra quanti vogliono favorire un nuovo equilibrio internazionale, visto che il modello di globalizzazione promosso nei decenni passati dagli Stati Uniti è ormai in crisi.

Nell’anno e mezzo appena passato il governo di Kyiv si è abituato a insultare i governi occidentali, che sembravano restii a uniformarsi alla linea dello scontro totale con lo “stato terrorista” russo impersonato da Putin. Diplomatici ucraini hanno insultato i dirigenti socialdemocratici tedeschi, diplomatici ucraini hanno insultato il governo israeliano perché si rifiuta di fornire armi a Kyiv, accusandolo di avere “scelto la strada della stretta cooperazione con la Federazione russa”. E’ una tecnica precisa, non una mancanza di aplomb. Gli insulti a Francesco fanno parte di questo stile (possibile solo fino a quando Washington continuerà a stendere la sua mano protettiva).

Ma intanto il mondo sta andando in un’altra direzione. L’allargamento dei cosiddetti “Brics” esprime la volontà dei nuovi protagonisti sulla scena internazionale di non sottostare più ad una egemonia unipolare statunitense. I Brics non rappresentano un nuovo blocco, hanno le loro divisioni, ma non vogliono sottostare ad un “maestro di scuola” occidentale per citare una metafora usata da Henry Kissinger.

Il G-20, appena conclusosi a Nuova Delhi, conferma questa direzione. Zelensky non ha avuto un microfono privilegiato, non è stato proprio invitato. Il documento finale non ripete la condanna dell’aggressione russa, perché bisogna andare avanti. Si riafferma il principio della “integrità territoriale” e al tempo stesso si sottolinea l’importanza di un “sistema multilaterale che salvaguarda pace e stabilità”.

Anche qui le parole sono pietre. Non è vero che l’”algoritmo della pace sarà ucraino” come ha detto perentoriamente il presidente Zelensky al cardinale Zuppi. La pace dovrà essere costruita da molti. E intanto il G-20 “accoglie con favore tutte le iniziative costruttive che sostengono una pace complessiva, giusta e duratura in Ucraina”. Papa Francesco è in ottima compagnia.

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