Dopo aver pubblicato Dove non mi hai portata, Maria Grazia Calandrone ha scritto: “Giovedì 24 giugno 1965 i miei genitori sacrificavano la loro vita perché io vivessi il sogno del loro futuro, il loro sogno sottoproletario. Ogni giorno raccolgo il testimone della vita di Lucia e Giuseppe e provo a trasferirlo ad altre mani: a quelle dei miei figli, per primi. Poi, a chiunque io senta onesto, vero, a chiunque non nasconda la sua ombra ma sappia renderla luce. Che splenda per tutti. Adesso abbiate finalmente pace. Voi innamorati, voi folli”.

Dove non mi hai portata non è solo un libro che commuove: è soprattutto un inno alla libertà e, anche, un atto di accusa contro il pregiudizio che, più di oggi, si respirava nei “favolosi” anni Sessanta: per molti non lo furono.

Il romanzo, pubblicato da Einaudi (nella cinquina dello Strega) è nato per caso.
È il 16 febbraio 2021. Maria Grazia Calandrone, poetessa, scrittrice, giornalista, durante una trasmissione televisiva racconta qualcosa di sé: che è stata adottata, che nell’estate del 1965, quando aveva otto mesi, fu trovata in un giardino di Villa Borghese a Roma; e che, poche ore prima del suo ritrovamento, suo padre e sua madre Lucia si erano tolti la vita, lasciandosi annegare nel Tevere.
Quando torna a casa riceve centinaia di mail, messaggi. In alcuni c’è scritto: “Ho conosciuto Lucia”.
“Io di questa donna non sapevo nulla” commentò Maria Grazia Calandrone. Che decise così – accompagnata da Anna, la figlia tredicenne – di indagare sulla donna che l’aveva allattata, cullata, accarezzata nei primi otto mesi di vita. Di scavare, insomma, nel passato di Lucia; scavando, Maria Grazia Calandrone scoprirà di essere (con orgoglio) la figlia di una giovane contadina ribelle e uccisa (“suicidata”) dai pregiudizi: nei “favolosi” anni Sessanta l’adulterio era un marchio, una vergogna; e una colpa da espiare con due anni di galera.

Nei “favolosi” anni Sessanta non c’era posto per Lucia.
Non c’era posto in terra molisana, a Palata, dov’era nata e dove era stata costretta a un matrimonio senza amore, e dove la mentalità contadina di allora (di tutta l’Italia, ma più accentuata al sud e centro sud) aveva un giudice supremo: “l’occhio della gente”. L’occhio della gente ha regole precise. Lucia prende botte dal marito? Non importa, avviene in casa loro. Si sa, ma nessuno vede. Va bene così. Ma quando Lucia incontra e ha una relazione con Giuseppe, un uomo in là con gli anni (potrebbe essere suo padre), sposato e con prole (che si stupisce quando scopre di aver fatto l’amore con una donna maritata e ancora vergine) va ad accomodarsi dalla parte del torto: è colpevole per la legge, è colpevole per familiari, conoscenti, amici. Colpevole e sola.

Forse potrebbe sistemare tutto: chiedere perdono, magari liberarsi della creatura che ha nel ventre. Ma Lucia non ci sta: meglio la fuga con Giuseppe. Scelgono Milano, perché a Milano è facile nascondersi, trovare lavoro, sopravvivere, far nascere Maria Grazia.
No, niente. Nemmeno Milano si rivelerà ospitale. Ci sarà un’altra fuga, l’ultima, a Roma.
Mentre ci racconta di sé, Maria Grazia Calandrone ci regala “cartoline” dell’Italia di allora. La scrittura è potente. Ecco un po’ di Milano, pervasa come tutto il paese di consumismo.

Televisore, frullatore, tostapane bollitore, automobile, Vespa frigorifero, ventilatore, aspirapolvere.
Le gite fuori porta, a bordo della Seicento verde acqua coi finestrini abbassati. Le cose. E le mille bolle blu.
In centro, pare ovunque Carnevale: le donne hanno capelli cotonati e minigonne insolenti, sgargianti camicette a stampe geometriche e optical, vestitini svasati, senza punto vita, tempestati da piogge di pois; ogni tanto si accendono una sigaretta.

Ma ecco un’altra Milano.

Negli anni Sessanta la corte è un microcosmo, un villaggio coi suoi negozi: spaccio alimentare, parrucchiere, ferramenta, panettiere. Il retro del palazzo affaccia sul metro d’acqua del Naviglio, che è insieme spiaggia privata e discarica, pure dei vasi detti “da notte”, benché usati da tutti anche in orario diurno, visto che i gabinetti sono esterni, due per quattro famiglie di quattro o cinque persone ciascuna. Ma si vive anche bene, il cortile è di tutti, i ragazzini giocano a pallone fino a sera, le donne stendono i panni e commentano guai e soddisfazioni di quella comunità fondata sul bisogno; ogni tanto si litiga per una cipolla, poi ci si riappacifica e si mangia insieme.

La scrittura della Calandrone ha musicalità, ritmo e più registri: dello storico o del giornalista d’inchiesta, a quello del narratore con una prosa che sconfina nella poesia, poesia pura. Siamo a Roma, adesso. Un anno dopo. Alla redazione dell’Unità è arrivata una lettera di Lucia Galante: “Io e il mio amico pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto…”. Il corpo di Lucia, intanto, è stato ritrovato nel Tevere. Quello di Giuseppe non ancora.

Sembra che la morte per acqua sia la più dolce.
Due minuti, ed è tutto oblio.
Due minuti e sotto il fiume ci sono le stelle della tua campagna ci sono le mattine dell’infanzia, la Pasqua
e mamma che ti lascia dormire
col tuo cane,
ci sono io che dal futuro ti guardo
calarti piano in quello specchio atomico,
in quella fine del mondo, e ti guardo
e ti lascio
libera, ti lascio
così senza rimedio
e, per me, prendo solo da chiarire
la solitudine della tua materia
disabitata.
Siamo dentro una vasca di luce. Ogni passo che faccio verso di te fa un rumore subacqueo.
Spero che mentre te ne vai, Lucia, risenti le campane della festa, che fanno piovere larghezza e fiori sulla campagna ancora addormentata.
Spero che finalmente ti riposi.

Ha un bel viso Maria Grazia Calandrone (nota personale: vista da me solo in foto): un’espressione dolce con un velo di tristezza.
Ha sempre amato i calpestati come il dottor Semmelweis o lo scrittore Vitaliano Trevisan, morto suicida nel gennaio del 2022. Tra le pagine di Dove non mi hai portata troviamo anche loro. Da Palata, a Milano, a Roma: Maria Grazia Calandrone, interrogando documenti e sopravvissuti, ha scoperto che la sua giovane mamma biologica aveva vissuto andando a testa alta in direzione e ostinata e contraria, pagando caro quel suo coraggio e quella sua scelta di libertà.

… posso finalmente accarezzare il volto di mia madre, e il suo corpo di luce e di niente. E abbandonare il pregiudizio che solo la cultura ci permetta di capire le cose e conoscere il mondo fuori e dentro noi. Lucia aveva la seconda elementare, ma era libera. Perché aveva cuore. Quello che ancora splende, irreparabile.

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