“Rivelo questo abuso per me stessa e per tutte le donne che sono state soggette a violenza fisica e abusi sessuali durante il loro arresto, in stazioni di polizia e prigioni, e hanno paura di parlarne”. L’audio è disturbato, e proviene dal famigerato carcere di Evin, il buco nero della repressione iraniana dove sono rinchiusi oppositori, intellettuali e studenti. La voce è quella di Nazila Maroufian, giornalista di 23 anni, arrestata per aver commesso i reati di “propaganda contro il sistema islamico iraniano” e “diffusione di notizie false”, uniti alla violazione dell’obbligo di indossare il velo, e che ha deciso di iniziare lo sciopero della fame. L’arresto però è anche collegato ad un’intervista che la giornalista ha fatto lo scorso 30 agosto 2022, quando sentì il padre della 22enne di origine curda Masha Amini, morta il 16 settembre 2022 mentre si trovava in custodia della polizia morale per non aver indossato il velo in maniera corretta, un episodio che aveva dato il via a una stagione di enormi proteste e repressione nella Repubblica islamica. Il racconto delle violenze e delle condizioni di Nazila Maroufian all’interno del carcere è stato condiviso da vari attivisti sui social, disturbato e rumoroso, estratto da una chiamata in cui si scorge una voce tremolante in mezzo a lunghe pause. La donna sembra essere in stato di choc e utilizza poche parole che faticano a descrivere nel dettaglio gli accaduti.

Durante lo stesso colloquio, la giornalista ha annunciato anche l’inizio di uno sciopero della fame, che ha l’obiettivo di protestare contro la sua situazione e quella di tutte le donne che subiscono violenza nelle stazioni di polizia e nelle carceri. “Questo sciopero è per me, ma è anche per tutte le donne in condizioni terribili in Iran. Quella della violenza è una realtà e chiunque non ne parli ha le sue ragioni per avere paura, ma durante gli interrogatori e nelle stazioni di polizia, le persone vengono aggredite verbalmente e sessualmente” ha detto Maroufian. Le dure critiche da parte dei Paesi europei per la repressione delle proteste sono state sistematicamente respinte da Teheran, mentre diversi cittadini europei si trovano ancora nelle carceri della Repubblica islamica. Tra loro, lo svedese di 33 anni Johan Floderus, diplomatico al lavoro con l’Ue, in carcere nella Repubblica islamica da oltre 500 giorni dopo essere stato arrestato pare con l’accusa di “spionaggio” mentre si trova in vacanza in Iran con gli amici.

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