Nuove regole e più sovranità condivisa“. In vista dei vertici europei che dovranno dare un esito finale all’eterno dibattito sul Patto di stabilità dell’Unione, a dare un assist alla posizione dei Paesi che chiedono di superare i vecchi paletti – e tra questi c’è l’Italia – è l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi. In un intervento sulla versione online dell’Economist l’ex premier ed ex presidente della Bce scrive che “tornare passivamente alle vecchie regole sospese durante la pandemia sarebbe il risultato peggiore possibile”. Questo è motivato anche dal fatto che “le strategie che nel passato hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa, affidandosi all’America per la sicurezza, alla Cina per l’export e alla Russia per l’energia, sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili“, afferma l’ex capo del governo. “In questo nuovo mondo – continua – la paralisi è chiaramente insostenibile per i cittadini, mentre l’opzione radicale di uscire dall’Ue ha dato risultati decisamente contrastanti. La creazione di un’unione più stretta si rivelerà alla fine l’unico modo per garantire la sicurezza e la prosperità che i cittadini europei desiderano”.

Un’unione monetaria sopravviverebbe senza un’unione fiscale?” si domanda ancora Draghi. Un quesito, dice, che tormenta la zona euro sin dalla sua creazione. “Progettato esplicitamente per escludere i trasferimenti fiscali, il blocco valutario era considerato da molti economisti destinato a fallire ancor prima del suo lancio”. Invece, sottolinea Draghi, “è sopravvissuto alla crisi esistenziale del 2010-2012 solo grazie a soluzioni provvisorie, e oggi non è più in grado di rispondere a questa domanda. Eppure, paradossalmente, le prospettive di un’unione fiscale nella zona euro stanno migliorando, perché la natura della necessaria integrazione fiscale sta cambiando”. L’unione fiscale, osserva l’ex presidente, “è generalmente vista come comportante trasferimenti dalle regioni prospere a quelle che attraversano una crisi economica, e in Europa l’opposizione pubblica ai Paesi più forti che sostengono quelli più deboli rimane feroce. Ma questo tipo di politica federale di ‘stabilizzazione’ è diventata meno rilevante. La zona euro si è evoluta in due modi che stanno aprendo una strada diversa, e potenzialmente più accettabile, verso l’unione fiscale”.

C’è di più: “L’Europa – riflette Draghi – non si trova più ad affrontare crisi causate principalmente da politiche inadeguate in determinati Paesi. Deve invece affrontare shock comuni e importati come la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina. Questi shock sono troppo grandi perché i Paesi possano gestirli da soli. Di conseguenza, c’è meno opposizione ad affrontarli attraverso un’azione fiscale comune”. E l’Ue ha davanti a sé altrettante “sfide sovranazionali” che richiederanno – aggiunge il premier – ingenti investimenti in un breve lasso di tempo, compresa la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione. Tuttavia Bruxelles, ragiona Draghi, “non ha né una strategia federale per finanziarli, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia fiscale e sugli aiuti di Stato limitano la capacità dei paesi di agire in modo indipendente. Ciò contrasta nettamente con l’America, dove l’amministrazione di Joe Biden sta allineando la spesa federale, i cambiamenti normativi e gli incentivi fiscali al perseguimento degli obiettivi nazionali”. E quindi se l’Europa non si metterà al lavoro “c’è il serio rischio che non raggiunga i suoi obiettivi climatici, non riesca a fornire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a favore di regioni che si impongono meno vincoli. Per questo motivo, ritornare passivamente alle vecchie regole fiscali – sospese durante la pandemia – sarebbe il peggior risultato possibile“.

Da qui le due opzioni: da una parte la strada può essere “allentare le norme fiscali e sugli aiuti di Stato, consentendo agli Stati membri di farsi carico dell’intero onere degli investimenti necessari”. “Poiché lo spazio fiscale nella zona euro non è distribuito equamente – puntualizza l’ex premier – un simile approccio sarebbe fondamentalmente uno spreco. Le sfide condivise come il clima e la difesa sono binarie: o tutti i Paesi raggiungono i loro obiettivi comuni oppure nessuno ci riesce. Se alcuni paesi possono utilizzare il proprio spazio fiscale ma altri no, allora l’impatto di tutta la spesa sarà inferiore, poiché nessuno sarà in grado di raggiungere la sicurezza climatica o militare“; dall’altra parte la seconda modalità è “ridefinire il quadro fiscale e il processo decisionale dell’UE per renderli commisurati alle nostre sfide condivise . Si dà il caso che la Commissione Europea abbia presentato una proposta per nuove regole fiscali mentre, con l’ulteriore allargamento dell’Ue sul tavolo, i tempi sono maturi per prendere in considerazione tali cambiamenti”. Le regole fiscali, spiega l’ex governatore, “dovrebbero essere sia rigorose, per garantire che le finanze pubbliche siano credibili nel medio termine, sia flessibili, per consentire ai governi di reagire a shock imprevisti. L’attuale insieme di regole non è né l’uno né l’altro, e porta a politiche troppo flessibili durante i periodi di espansione e troppo rigide durante i periodi di recessione. La proposta della Commissione europea contribuirebbe notevolmente ad affrontare tale pro-ciclicità. Ma anche se pienamente attuato, non risolverebbe del tutto il compromesso tra regole rigide – che devono essere automatiche per essere credibili – e flessibilità. Ciò può essere risolto solo trasferendo maggiori poteri di spesa al centro, il che a sua volta rende possibili regole più automatiche per gli Stati membri“.

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