Dopo quasi sedici anni dal rogo nello stabilimento Thyssen di Torino, dove persero la vita sette operai, il manager tedesco della Thyssenkrupp Harald Espenhahn ha varcato la soglia del carcere in Germania. L’ingresso risale al 10 agosto, ma la notizia è stata diffusa solo oggi. “Dopo 5726 giorni il signor Espenhahn dopo tanto correre, scappare dalla giustizia ha varcato la soglia del carcere”, ha commentato Antonio Boccuzzi, l’operaio scampato alla strage del 6 dicembre 2007. “Non è un risarcimento, non è vendetta. È solamente l’unico epilogo che si sarebbe già dovuto compiere da tempo e che è stato solo rimandato. Quei 5 anni saranno ulteriormente ridimensionati. Lo sappiamo e non ci facciamo strane o vane illusioni, ma un passo è stato compiuto e questo non ce lo porta via nessuno”. Poco dopo è intervenuta Rosina Platì, madre della vittima Giuseppe Demasi: “Ci è arrivata la notizia che anche Espenhahn è finalmente in carcere ma sconterà la pena in semilibertà, andando solo a dormire in carcere. Non siamo contenti. Mettiamo la parola fine a questa sentenza che non ci soddisfa per niente”.

Espenhahn era stato condannato a 5 anni, ma non aveva scontato ancora un giorno di carcere. Per la strage sono stati condannati quattro manager italiani, che si sono consegnati subito dopo il verdetto, e due tedeschi. Per questi ultimi, il tribunale di Essen aveva adeguato la pena di nove anni e otto mesi al diritto tedesco che, per questi casi, prevede una detenzione di massimo 5 anni. I manager, accusati di omicidio colposo e incendio doloso per negligenza, avevano presentato ricorso. La Corte costituzionale tedesca ha stabilito a maggio che il ricorso non fosse accettabile contro le modalità del processo in Italia e che, inoltre, la colpevolezza del manager sia evidente. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, la Corte d’assise di Torino scrisse che Espenhahn “conosceva i rischi, ma azzerò la prevenzione e la sicurezza”. Una scelta “sciagurata”, ma consapevole.

Oggi la notizia che anche Espenhahn è entrato in carcere. Rosina Platì l’ha definita a LaPresse “una magra vittoria, amara”. E all’agenzia Ansa ha aggiunto: “Non siamo contenti. In confronto a quello che volevamo, anzi che meritavano, non è nulla. Quello che mi dà ancora più fastidio è che questo poco lo abbiamo raggiunto noi, con tutte le lotte che abbiamo fatto. Se qualcuno ci avesse aiutati magari saremmo riusciti a ottenere qualcosa di più”. E ha concluso: “La parola fine è stata scritta per loro, per noi non lo sarà mai per il dolore che proviamo sempre, ogni giorno”.

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