di Franco Failli

“Lavoro, guadagno, pago, pretendo!” è la frase del ‘cumenda’ interpretato dal bravo Guido Nicheli e diventata icona di una certa milanesità grazie ai film dei fratelli Vanzina. Oggi però non è più la simpatica macchietta di un caratterista. Sono probabilmente la maggioranza quelli che in modo più o meno esplicito ispirano ad essa la loro vita di tutti i giorni.

Ovviamente non c’è niente di male nel pensare che, se si è lavorato onestamente, riuscendo a guadagnare del denaro che poi si utilizza per pagare un servizio o dei prodotti, ci si possa poi aspettare di veder soddisfatte le proprie attese. Quello che rendeva la frase palesemente caricaturale era, oltre al marcato accento milanese, l’intrinseca arroganza di quel “pretendo” finale.

Ma oggi quanti sono quelli che pensano che pretendere sia un atto arrogante, quando si è pagato per qualcosa? Probabilmente meno che in passato, quando al sentire quella frase si rideva di cuore.

Il fatto è che di mezzo c’è il lavoro.

Il lavoro di quelli da cui si pretende quel che si è pagato, e che troppo spesso si dà per scontato di aver comprato tutti interi, di aver messo integralmente al proprio servizio con quel pagamento, quasi si fosse acquistati come schiavi.

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, dice il noto primo articolo della nostra Costituzione. Che è molto diverso da “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul pagamento”. In quel primo articolo il lavoro è visto come un valore fondante per una comunità e per la singola persona che ne fa parte. Non è affatto il prostituirsi per ottenere dei soldi, mettendo da parte la propria dignità.

È anzi proprio il lavoro che conferisce dignità alla persona, che la eleva al rango di compagna di vita dei suoi simili. Con il nostro lavoro li aiutiamo a vivere e a mantenere e incrementare non solo la nostra dignità ma anche la loro. Un lavoro che non risponda a queste caratteristiche, in modo più o meno evidente, dovrebbe insospettire chi lo fa e chi lo procura. C’è il rischio concreto che non sia un lavoro ma un servaggio.

E il cliente ovviamente non è un elemento estraneo alla faccenda, anzi. Essendo colui al quale il lavoro è rivolto, è il cliente che ha la responsabilità di riconoscere e certificare l’importanza del lavoro svolto, segnalando quando qualcosa non è andato bene, ma anche gratificando chi sta lavorando per lui, specie quando le cose vanno nel modo voluto.

Propongo quindi una leggera modifica della frase di apertura in: “lavoro, guadagno, pago, pretendo e ringrazio”.

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