Lo scorso 16 luglio, dopo essere quasi sparite dalle strade per alcuni mesi, le pattuglie della “polizia morale” sono state ufficialmente reintrodotte in Iran. Non è chiaro perché sia accaduto proprio in questo periodo: qualcuno ha ipotizzato che il motivo risiede nell’imminenza delle celebrazioni dell’Ashura, la ricorrenza sciita largamente sponsorizzata dalle autorità, durante la quale si “piange” l’assassinio dell‘Imam Hussein, previste quest’anno per il 27 luglio. Sicuramente, a due mesi dall’anniversario della morte di Mahsa Amini, è ormai un fatto la dialettica di conflitto – talvolta latente, talvolta esplicito – tra le autorità e una parte rilevante del Paese, altamente istruita e pienamente inserita nei processi di globalizzazione.

Sarebbe però fuorviante credere che i gruppi di potere principali della Repubblica islamica debbano fare i conti “solo” con il malcontento di un ampio segmento di popolazione che rivendica in particolare la dimensione libertaria, laica, o persino “occidentalizzata” delle proprie aspirazioni politiche. La crisi di legittimità di un sistema che è entrato nel quinto decennio di vita, infatti, si declina su versanti diversi, in alcuni casi opposti. Lo si era già visto nelle settimane più intense di protesta, quando a quelle portate avanti da giovani urbanizzati e istruiti delle grandi città si alternavano le proteste del proletariato dei centri medi e medio grandi, legati a grandi industrie, o quelle delle minoranze etniche nelle regioni di confine.

Ora, tra i critici del governo di orientamento conservatore, ci sono anche alcuni dei suoi più fedeli sostenitori. Forse dovremmo addirittura dire “propagandisti”, se è vero che i “recitatori di elogi sciiti” – cioè i performers che guidano le coreografie, le processioni sciite e le manifestazioni canore e politico-religiose organizzate dal regime – hanno sempre celebrato lo stesso, non di rado venendo scelti e utilizzati anche come “alfieri” dialettici contro i riformisti, ma anche contro l’ultimo governo di Hassan Rouhani e l’accordo sul nucleare. Uno di loro, Hassan Kordmihan, era stato addirittura tra i leader della folla di “hooligans” che aveva assaltato le sedi diplomatiche saudite nel 2016 (proprio per sabotare l’agenda di Rouhani e rovinare la sua reputazione, ndr). Sono praticamente tutti di orientamento conservatore e ultra conservatore.

Dall’inizio delle proteste del 2022, tuttavia, anche in questo piccolo ma potente regno di solerti e appassionati recitatori sembra essersi aperto uno squarcio. Dapprima il famoso recitatore iracheno Bassem Karbalaei è stato aggredito dopo che la sera stessa era arrivato a insultare Khamenei durante una sua eulogia. Poi, a partire da aprile, uno dopo l’altro, diversi suoi colleghi hanno duramente, e in modo totalmente inedito, criticato l’operato del governo che fino a poco tempo prima sostenevano in modo più plateale di chiunque altro. Hamid Alimi, recitatore che aveva contestato anche Rouhani, ha attaccato il presidente Ebrahim Raisi durante una sua performance, e da quel momento gli è stato più volte impedito di esibirsi; Mahmoud Karimi, uomo molto ricco e uno dei più attivi contro l’ex ministro degli Esteri, Mohammad Zarif, è stato diffidato dal cantare un passaggio di una lettera che Ali ibn Abi Talib scrisse all’allora governatore dell’Egitto, invitandolo a un giusto trattamento della popolazione; tra i critici del governo anche Reza Narimani e Hossein Ansaria.

Dal 2018, poi, c’è anche un Grand Ayatollah di Qom a esser guardato con crescente apprensione dai falchi della Repubblica. Si chiama Javad Alavi Bourujerdi. Ha 72 anni ed è il nipote di un altro celebre ayatollah, Hossein Tabatabae’i Bourujerdi, a cui è legato anche da una duplice ironia del destino: fu infatti da un lato tra i protagonisti della crescita del seminario di Qom – che nel 1980 culminerà col renderla di fatto la “sede politico-spirituale” della neonata Repubblica islamica -, pur tenendosi sempre al di fuori della politica, a differenza del padre della rivoluzione, Khomeini; dall’altro, secondo storici come Roy Mottahedeh, Tabatabae’i fu “il solo marja-e taqlid dell’intero mondo sciita dal 1945 alla sua morte nel 1961”. Marja-e taqlid nel “gergo” sciita duodecimano significa “fonte di emulazione”, ed è una qualifica “onoraria” attribuita a pochissimi ayatollah.

Il tema della “attribuzione” è delicato e centrale: in primo luogo perché la rottura dell’ayatollah Javad Alavi Bourujerdi con alcune alte sfere religiose del regime si è manifestata la prima volta 5 anni fa, quando quest’ultimo, dopo aver pubblicato il suo Towzih al masa’il (un manuale di commenti ai pronunciamenti giuridici di precedenti marja), si è autoproclamato proprio “Marja-e Taqlid”, indispettendo l’ayatollah Mohammad Yazdi, ex capo del giudiziario ed ex presidente dell’Assemblea degli Esperti, oggi a capo della Società degli Insegnanti di seminario di Qom, città dove insegna anche Bourujerdi.

In secondo luogo, connesso al primo, va ricordato che secondo la tradizione sciita, un marja-e taqlid non potrebbe essere né eletto né nominato da nessuno. Dopo aver svolto la trafila degli studi giuridici e teologici e aver ricevuto da almeno altri due marja una sorta di “certificazione” all’utilizzo dell’ijtihad (la capacità di elaborare editti religiosi interpretando le fonti giuridiche), tradizionalmente la trasformazione in marja-e taqlid è sempre avvenuta “misurando” la popolarità, in un certo senso per acclamazione: sono i fedeli sciiti a esser chiamati a scegliere individualmente il proprio marja, ed è la loro portata numerica a rendere quell’ayatollah intitolato alla qualifica, a volte con la formale richiesta collettiva di pubblicare un testo con pronunciamenti ex novo sulla vita del musulmano.

Dalla rivoluzione islamica, però, alcune cose sono cambiate, anche in modo paradossale. La stessa Società degli Insegnanti del Seminario di Qom, molto vicina all’establishment, ha cercato sin dagli anni ’80 di intervenire sul tema, inserendo dei criteri di cooptazione dei marja. Nel 1994, ha addirittura rilasciato una lista ufficiale di sette (oggi otto, ndr) marja-e taqlid “credibili”, in qualche modo interferendo sulla consuetudine e sul “sacro” diritto dei fedeli di scegliere un marja, così come su quello del marja di esser riconosciuto come tale solo da una consistente platea di fedeli, che ha anche l’importante funzione di finanziarlo attraverso delle donazioni, aumentandone così il potere. Nei primi anni del 2000, ha imposto a qualunque Ayatollah intenzionato a pubblicare il proprio Towzih al masa’il di chiederle l’autorizzazione.

Non ha sorpreso, quindi, la rabbia che l’ayatollah Yazdi ha indirizzato verso Bourujerdi dopo che quest’ultimo ha deciso di pubblicarlo ugualmente, continuando peraltro a essere molto attivo sui social media. “Se aprirà un ufficio, gli toglierò personalmente l’insegna. Finché sarò in vita, impedirò a chiunque di proclamarsi marja”, aveva commentato Yazdi. Inutile dire che oggi in Iran i marja-e taqlid riconosciuti sono molti di più degli otto ufficiali.

Ci sono delle ragioni di merito, per le quali la mossa di Bourujerdi ha innescato un moto di ansia nell’establishment. C’è la sua inusuale (per i religiosi in Iran) disinvoltura nel celebrare il passato pre-islamico dell’Iran, e in particolare del fondatore dell’Impero persiano, Ciro Il Grande, e del suo “cilindro”, considerata la prima vera dichiarazione sui diritti umani; c’è la sua apertura verso i Baha’i (secondo le stime circa 300mila in Iran), che dalle autorità sono ampiamente discriminati e considerati una setta che funge da bacino di reclutamento degli agenti del Mossad; la sua esplicita favorevolezza al JCPOA, l’accordo sul nucleare (che a suo avviso avrebbe avuto l’effetto benefico di “separare Stati Uniti ed Europa”); la sua capacità di attrarre le fasce più giovani – notoriamente sempre più lontane dai religiosi – per via della capacità di usare registri diversi, di padroneggiare e interagire nel cyberspazio (definito una “opportunità d’oro”, che “non ha senso restringere come si fa in Russia e Cina”) e di assumere posizioni molto più soft di tanti suoi colleghi su diversi temi, non ultimi quelli del velo obbligatorio (“la vera fede non dovrebbe essere definita dalle apparenze”) e di una maggiore laicità del sistema, insistendo per esempio sulla necessità di affidarsi ai tecnici in materie come l’economia, e meno a chi abbia requisiti di tipo religioso.

C’è la sua posizione netta rispetto alla repressione delle proteste – “queste persone vanno ascoltate, i giornali lasciati liberi di scrivere, sulla tv di Stato dovrebbero esserci opinioni diverse” – e c’è, in particolare, la sua progettualità politica. Come ricorda l’analista Ruhollah Faghighi, nel 2003 fu formato a Qom un gruppo soprannominato “Incontro tra i professori del seminario di Qom”, con la mission di realizzare “l’indipendenza del seminario dalla politica, dal punto di vista finanziario e intellettuale”. Quasi l’80% dei docenti aderì, nonostante le critiche dei più vicini al regime, e tra questi ci fu anche Bourujerdi, che poi ha assunto una posizione prominente in seno allo stesso gruppo. “Ha molti vantaggi, come la sua indipendenza e il sostegno che esplicita verso i diritti delle persone”, ha confidato a Middle east eye un religioso di Qom, “mentre molti degli altri ayatollah tacciono o agiscono in collusione col governo. Ciò danneggia sia l’Islam che il seminario”.

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