Cosa sareste disposti a fare per evitare una guerra mondiale e centinaia di milioni di morti? Probabilmente qualsiasi cosa. Ed è in questa categoria dimensionale di problemi che andrebbe collocata la crisi climatica in atto. Nell’ economia di guerra le attività produttive di un paese vengono coordinate dall’alto, perché altrimenti non sarebbero in grado di fornire ciò che serve per lo sforzo bellico, nei tempi necessari. A mali estremi, estremi rimedi. Non sembra fuori luogo chiedersi se possiamo possiamo ancora permetterci di lasciare a imprese energetiche private che agiscono, legittimamente, nell’interesse dei loro azionisti e non della società nel suo complesso, di determinare scelte che riguardano la salvezza del pianeta e di chi lo abita. In pochi ambiti la litania neoliberista “Markets know best” (i mercati sanno e agiscono meglio), si è rivelata fallimentare come in quello ambientale. Persino il londinese Financial Times (non certo ostile a finanza e mercati) prospetta ormai la necessità di un’azione coordinata come se fossimo in guerra.

“Gli impegni su base volontaria delle società energetiche non prevedono alcun meccanismo di responsabilità se ritardano o non riescono a raggiungere gli obiettivi che fissano”, spiega a IlFattoquotidiano.it J. Timmons Roberts docente di Ambiente, Società e Sociologia alla Brown University, negli Stati Uniti. “Per avere una transizione ordinata dai combustibili fossili, non bastano le carote, servono anche i bastoni. Vale a dire legislazioni e regolamenti, con obiettivi e tempistiche chiari. Siamo nella situazione in cui siamo, avendo ormai superato le soglie giudicate critiche, perché sinora abbiamo fallito. Gli approcci basati sul mercato sono stati sperimentati per tre decenni e non hanno prodotto i risultati che servivano. È tempo di introdurre una seria pianificazione”, aggiunge Roberts.

Le emissioni di Co2 continuano a crescere – Purtroppo le reazioni al disastro ormai in atto avvengono con la velocità di un bradipo. Anzi, a guardar bene, non avvengono proprio. Nel 2023 i consumi di carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, raggiungeranno un record storico. Per quelli di petrolio non c’è nessuna diminuzione in vista, al massimo un rallentamento della velocità della crescita. A livello globale l’inquinamento da Co2 non sta migliorando ma peggiorando. Nonostante i potenziali danni catastrofici dell’uso di idrocarburi fossero noti alle compagnie petrolifere sin dagli anni ’70 nessuna ha mai preso seriamente in considerazione un ripensamento del proprio business. Neppure ora, al di là di una stanca e stucchevole propaganda, nessuna grande compagnia petrolifera ha intenzione di fare un passo indietro. Al contrario, gli investimenti in rinnovabili calano e quelli in petrolio e gas aumentano. La ricerca del profitto (e petrolio e gas sono tornati ad essere molto profittevoli) prevale su qualsiasi considerazione. La grande finanza, che secondo qualcuno sarebbe stata capace di indirizzare i flussi di denaro là dove più utile per la salvezza del pianeta, a sua volta non ha mai preso in considerazione questa possibilità.

Lobbying a suon di dollari – All’azione dei big energetici dobbiamo anche molta della timidezza degli interventi regolamentari sinora adottati. Dal 2010 a oggi le cinque più grandi compagnie del pianeta che operano nel settore di petrolio e gas, ossia BP, Chevron, ExxonMobil, Shell e Total, hanno speso più di 250 milioni di euro solo per fare pressione sull’Unione europea e influenzare così le politiche su clima ed energia. Altrettanto, se non peggio, è accaduto negli Usa e altrove. Queste stesse società hanno finanziato innumerevoli studi negazionisti fatti poi circolare ad arte su media compiacenti. Esiste anche il pericolo che, di fronte al precipitare della situazione e ad una protratta inazione delle istituzioni, l’attivismo ambientalista possa assumere connotazioni violente, ricorrendo a sabotaggi industriali etc.

Controllo pubblico o comunque sottratto ai privati non significa di per sé maggiore attenzione all’ambiente. Non ne è condizione sufficiente ma probabilmente necessaria. Al momento, nello sforzo per aumentare la competitività dei rispettivi paesi, e con una grave carenza di cooperazione, i governi continuano a puntare sul fossile. L’amministrazione Biden firma permessi di nuove trivellazioni con una velocità e disinvoltura che farebbe impallidire Trump. Il Messico punta sul suo campione petrolifero Pemex. Il brasile di Lula, che pure ha rinnegato il negazionismo di Bolsonaro e arginato le speculazioni sull’Amazzonia, continua a investire su Petrobras. Le imprese energetiche cinesi, di fatto a completo controllo pubblico, sono tra le più inquinanti al mondo. Il paese sta investendo molto in rinnovabili ma tuttora brucia più carbone che tutto il resto del mondo messo insieme. La Germania tassa le rinnovabili per sussidiare gas e petrolio per le sue industrie. La Gran Bretagna ha appena concesso centinaia di nuove licenze per estrarre gas e petrolio. Si procede in ordine sparso, un passo in avanti e due indietro, ma questi indirizzi possono essere cambiati, se ci sono volontà politica e pressione pubblica (o la costrizione dettata dalle circostanze) per farlo. Alle condizioni attuali, i grandi gruppi privati non lo faranno invece mai.

Per aumentare la sua efficacia una politica di difesa ambientale dovrebbe essere coordinata a livello internazionale ma come ci spiega Roberts “La costruzione di nuove istituzioni internazionali richiederebbe troppo tempo. Sono le organizzazioni già esistenti, come l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dovrebbero affrontare la questione climatica con urgenza”. Secondo il docente della Brown University “Le banche centrali e i dipartimenti del Tesoro hanno un ruolo cruciale da svolgere. È necessario attivare meccanismi internazionali per aumentare i finanziamenti per il clima: questi potrebbero includere imposte sui viaggi aerei internazionali, sui carburanti per i trasporti, sulle transazioni finanziarie internazionali. Fondi che andrebbero raccolti con uno sforzo congiunto a livello internazionale, non affidati a singoli paesi”.

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