Giugno 1982. Il Mostro ha già ucciso quattro coppie di giovani e la Toscana è precipitata nella trama di un film dell’orrore americano. L’assassino agisce nel buio, ammazza a colpi di pistola e asporta parti anatomiche delle sue vittime femminili. Dopo anni di indagini a vuoto, gli inquirenti si accorgono che nel 1968 la stessa arma ha già sparato e ucciso due amanti. I presunti autori di quel vecchio delitto, dei sardi emigrati in continente, uno dopo l’altro vengono incarcerati con l’accusa di essere il Mostro. Eppure gli omicidi non si fermano: alla fine le vittime saranno sedici. Ma è davvero un omicida seriale solitario ad aver compiuto tale mattanza? Cosa emerge dalle scene del crimine e dalle vite private delle vittime? Perché quelle escissioni sui corpi delle donne? La “pista sarda” si è avvicinata alla verità o un anonimo ha manovrato nell’ombra per tenere al riparo i veri responsabili? Ilfattoquotidiano.it pubblica un estratto dell’opera storiografica di Roberto Taddeo dal titolo: “La storia del mostro di Firenze. La sequenza dei delitti e la pista sarda” (vol.1, edizioni Mimesis).

.1 Stefania e Pasquale
Stefania ha appena diciotto anni e vive con i genitori a Pesciola, una piccola frazione del comune di Vicchio di Mugello, dove è anche nata, il 3 maggio del 1956. È una ragazza dolce e insicura, apparentemente rigida con gli altri e certamente troppo severa con sé stessa. Ma è soprattutto una persona molto concreta, una di quelle, come si suol dire, con la testa sulle spalle. Non è un caso se, appena terminata la scuola, trova impiego come segretaria in una ditta, la Magif, in via Stradivari, nel quartiere di Novoli, a Firenze.

In attesa della patente e magari, quando finalmente potrà permettersela, di una bella macchina, tutte le mattine Stefania raggiunge la città in treno, scende alla stazione di Santa Maria Novella, e poi di corsa prende l’autobus fino al posto di lavoro. È un viaggio lungo e faticoso, di oltre un’ora: nel mezzo, tra la sua casa di campagna e la grande periferia fiorentina dove ha sede l’ufficio, si erge il complesso del Monte Giovi, una media montagna che separa, non solo geograficamente, la Valdarno dal Mugello, e che rende Vicchio, allora come oggi, un posto un po’ più lontano da Firenze di ciò che sembra.

La mamma Bruna fa la casalinga, e il padre Andrea il manovale. Di quest’ultimo, ex partigiano che ha combattuto nella Resistenza, Stefania fa suoi solo gli insegnamenti politici, partecipando a qualche attività del Partito Comunista Italiano; per il resto, non sembra avere una buona opinione del genitore. Anzi, nel suo diario lo definisce “fissato, ebete e grullo, a causa del vino”. Più stretto ed equilibrato il rapporto con la mamma.

Stefania è fidanzata con Pasquale, che è nato ad Arezzo solo un anno prima di lei, il 24 gennaio 1955.

Anche Pasquale vive ancora coi suoi, ma a Molino del Piano, una frazione del comune di Pontassieve, più a sud, verso Firenze, a una mezz’ora d’auto abbondante dalla casa di Stefania. La sua è una delle tante oneste e laboriose famiglie di origine meridionale emigrate in Toscana negli anni precedenti.

Pasquale ha la patente e spesso prende in prestito la Fiat 127 blu del padre. I soldi per la benzina non sono un problema, dato che da poco ha ottenuto un posto di lavoro presso il bar interno di una grossa società di assicurazioni, La Fondiaria, in piazza della Libertà, a Firenze.

I due giovani si frequentano, tra alti e bassi, da circa due anni. La loro è la classica relazione tormentata post-adolescenziale. Nel suo diario, Stefania esprime ora l’odio ora l’amore per il “suo” Pasquale. Come da copione, ciclicamente avvengono litigi, scaramucce, riappacificazioni, ma mai nulla di troppo grave o irreparabile. Tant’è che sul finire di quell’estate del 1974 i rapporti tra i due ragazzi paiono finalmente più distesi, e la coppia, come si faceva una volta, prende in considerazione l’idea di fidanzarsi ufficialmente. Non c’è crisi che tenga: il carattere esuberante e giocoso di Pasquale sembra incastrarsi a meraviglia con la serietà e la timidezza di Stefania.

1.2 L’ultima sera
Il 14 settembre 1974 è un sabato. Maria Cristina, la sorella di Pasquale, ha deciso di trascorrere la serata con i suoi amici alla discoteca Teen Club di Borgo San Lorenzo, proprio a una manciata di chilometri dalla casa di Stefania. Pasquale, un po’ per gentilezza, un po’ per convenienza, si offre di accompagnarla fino al locale con la macchina del loro babbo, promettendole che sarà di ritorno per riportarla a casa non oltre la mezzanotte. Fino a quell’ora potrà trascorrere un po’ di tempo con Stefania. E così fa.

Sono ancora le 21:00 quando Pasquale imbocca la strada che sale verso la contrada Pesciola. Carica Stefania e poi fa il percorso inverso, oltrepassando il passaggio a livello in direzione della provinciale che collega Vicchio a Borgo San Lorenzo. Dopo un breve tragitto tra le stradine di campagna, Pasquale ferma la macchina in un tratturo accanto a un campo di grano, in una zona piuttosto isolata, un non-luogo che prende il nome di Fontanine di Rabatta, esattamente al confine tra i comuni di Vicchio e Borgo San Lorenzo e a metà strada, chilometro più chilometro meno, tra la casa di Stefania e la discoteca Teen Club. È un posto notoriamente frequentato da coppie che vogliono appartarsi. Non lontano da lì, a meno di trecento metri, scorre il fiume Sieve.

È ampiamente passata la mezzanotte e Maria Cristina, dopo aver aspettato invano il fratello fuori dalla discoteca, chiede e ottiene da un suo amico un passaggio fino a Molino del Piano. È certa di trovare quel bischero di Pasquale a casa, già sotto le coperte, dove gliene dirà quattro.

Ma il fratello, a casa, non c’è. La ragazza, allarmata, sveglia i genitori.

Nel frattempo anche Bruna Bonini, la madre di Stefania, non vede rientrare la figlia. È presa dall’ansia. Insieme a un parente, si reca in tutti gli ospedali del territorio. La donna si prepara al peggio. Immagina un incidente stradale. Stefania, però, non è ricoverata in nessuno dei nosocomi visitati.
La notte passa, arriva l’alba e dei due giovani nessuna notizia.

1.3 La scoperta del duplice omicidio
Alle 7:30 del giorno successivo, una domenica, il contadino Pietro Landi, come ogni mattina, si reca alle Fontanine di Rabatta per lavorare il suo pezzo di terra. Parcheggiata sul tratturo che percorre il campo c’è una 127 blu. L’uomo è il primo a vedere all’interno dell’auto il corpo senza di vita di Pasquale e, a poca distanza, fuori dal veicolo, buttato sull’erba, quello di Stefania.

I due giovani sono stati uccisi.

I carabinieri di Borgo San Lorenzo ricevono quasi contemporaneamente tre denunce: le prime due sono dei genitori di Stefania e Pasquale per la scomparsa dei loro figli, la terza è quella, raccapricciante, di Pietro Landi.

I militari trovano la 127 blu con lo sportello del passeggero aperto e il vetro anteriore del guidatore frantumato. L’autoradio è ancora accesa, lo specchietto retrovisore non è al suo posto, ma sul tappetino, sotto al sedile di destra. Ci sono due piccoli fori nel sedile del passeggero (solo più tardi si capirà che sono stati provocati dai colpi di un’arma da fuoco) e uno squarcio piuttosto evidente in quello posteriore. Alcuni vestiti, tra cui le scarpe dei due ragazzi, sono all’interno dell’auto. Altri, ben piegati e senza macchie di sangue, sono appoggiati per terra, fuori dall’abitacolo. È stato un gesto compiuto da uno dei due giovani, magari per preservare dei panni appena ritirati dalla lavanderia, o questa strana e inquietante circostanza è opera di chi ha compiuto quello scempio? Il portafoglio di Pasquale è in una tasca dei suoi pantaloni, e contiene trentottomila lire. Nell’immediatezza del rinvenimento dei corpi, non viene trovata la borsetta di Stefania.

Pasquale è all’interno dell’auto, seduto al posto di guida, indossa solo le mutande e i calzini. Ha la testa appoggiata al montante del finestrino, quello frantumato. Secondo la perizia dei carabinieri, redatta dal colonnello Zuntini, Pasquale Gentilcore è stato raggiunto da sei colpi di pistola al fianco sinistro che hanno attraversato cuore e polmoni. Con ogni probabilità è morto sul colpo.

Stefania è fuori dall’abitacolo, in prossimità dell’angolo posteriore destro della macchina, quasi sotto al tubo di scappamento. È completamente nuda, supina, gambe e braccia divaricate. Presenta ferite di arma da fuoco agli arti inferiori e al fianco destro, e da arma da taglio al volto. Nessuna di queste mortali. Altre ferite da arma bianca, ben assestate nella zona del petto, sono invece quelle fatali. Il basso ventre e la zona mammaria sono stati oltraggiati con circa novanta tagli, impressi senza che la lama affondasse nella carne.

Nella vagina di Stefania è inserito un tralcio di vite.

1.4 La probabile dinamica del delitto
Il duplice omicidio è avvenuto tra le ore 23:30 e le 23:45 del 14 settembre. Due testimoni, infatti, racconteranno di aver udito, a poca distanza dal luogo del delitto, in quel lasso temporale, dei colpi di arma da fuoco.

Stefania e Pasquale sono all’interno dell’auto, sdraiati sul sedile del passeggero reclinato. Hanno iniziato a spogliarsi e stanno per avere un rapporto sessuale. Pasquale è sopra Stefania quando l’assassino si presenta dalla parte destra dell’autovettura e apre immediatamente il fuoco. I primi cinque colpi raggiungono il torace di Pasquale che, coprendo interamente il corpo di Stefania, le fa da scudo. Dopo la prima veloce sequenza di spari, Pasquale, ruotando su sé stesso, si getta istintivamente sul sedile sinistro e muore. Un colpo, il sesto, lo manca e raggiunge il finestrino anteriore sinistro dell’auto, frantumandolo perciò dall’interno.

Adesso l’assassino può occuparsi di Stefania. Spara e la manca, colpendo il sedile. La giovane è ferita gravemente, ma non in maniera mortale. Viene raggiunta solo dalle schegge del proiettile che ha impattato contro il metallo sotto l’imbottitura del sedile. Subito dopo, altri due colpi: al ginocchio e alla gamba destra. A questo punto, resosi forse conto di aver terminato le cartucce, e con la ragazza ancora in vita, l’omicida estrae un coltello. Stefania si divincola e tenta una disperata difesa. Nasce una breve colluttazione, ma la battaglia non si svolge ad armi pari. Stefania è raggiunta dalla lama prima alle braccia e poi alle mani, infine alla tempia destra e alla guancia sinistra. Ha smesso di lottare.

L’assassino può vibrare tre fendenti ben assestati al cuore, quelli mortali.

Passano dieci minuti. È questo, sempre secondo la perizia dei carabinieri, il tempo necessario affinché il sedile si impregni di tutto quel sangue. Poi l’assassino afferra il corpo di Stefania per i piedi e lo trascina fuori dalla 127. Qui le strappa le mutande e comincia la sua immonda opera di piquerismo: sono almeno novanta i tagli superficiali inferti sul cadavere, concentrati sui seni e sul pube, senza che la punta dell’arma penetri nella carne. Infine, raccoglie un tralcio di vite dal vicino vigneto e lo inserisce per qualche centimetro nella vagina.

Prima di abbandonare il luogo della mattanza, torna sul corpo ormai privo di vita di Pasquale e lo colpisce con ulteriori tre coltellate, come per assicurarsi che sia morto.

È notte fonda. L’assassino può dileguarsi nel buio del novilunio.

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