Mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni definisce “fondamentalismo” la lotta ai cambiamenti climatici, la temperatura della Terra ha raggiunto il valore più alto di sempre (e Roma si appresta a raggiungere per la prima volta i 43°). Realisticamente non c’è più nessuna speranza di mantenere l’incremento della temperatura media globale entro gli 1,5° e questo significa entrare in un territorio inesplorato e pericoloso. Oltre questa soglia si innescano processi che inducono reazioni a catena di cui nessuno sa con certezza quali saranno gli esisti finali. In ogni caso guai grossi. Per citare giusto qualche proiezione, se il riscaldamento medio globale passa da 1,5 a 2° i periodi di siccità raddoppiano da una media di 2 a 4 mesi, alcune specie di pesci iniziano ad estinguersi, l’aumento del livello dei mari sale da 46 a 56 centimetri, la barriera corallina viene completamente cancellata. Con un incremento a 3° l’ecosistema marino viene ritenuto a rischio collasso, a + 4° il livello dei mari sale di 9 metri, mettendo in pericolo 760 milioni di persone. In generale una temperatura più alta significa più energia nell’atmosfera e quindi fenomeni (di qualsiasi tipo, anche apparentemente di segno opposto) più violenti e devastanti.

I climatologi ritengono ormai di essere in grado di affermare che la Terra è entrata in una nuova era dopo 11.700 anni. Si tratta dell’Antropocene, in cui l’influenza dell’umanità sul pianeta è diventata irreversibile. Ma saranno forse tutti fondamentalisti. Che tiri una bruttissima aria lo hanno però ben capito i colossi assicurativi che iniziano a smarcarsi dal business delle polizze per i rischi climatici. Secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, il gruppo francese Axa, uno dei più importanti al mondo, sta valutando la possibilità di vendere la sua divisione di riassicurazione immobiliare “XL Re”, nel tentativo di ridimensionare la sua esposizione ai disastri naturali. Tre mesi fa la statunitense AIG ha venduto il suo riassicuratore Validus per 4,5 miliardi di dollari, una scelta presa dopo che i risarcimenti versati sono saliti del 25%.

Se si vende naturalmente c’è chi compra e questo significa che c’è qualcuno disposto ad assumersi il rischio. Più eventi catastrofici significa anche una maggior ricorso alle assicurazioni e quindi prospettive di espansione per il settore. In generale i maggiori costi per gli assicuratori possono essere trasferiti sull’insieme dei clienti in forma di premi più alti. Chi continua a riassicurare ha alzato i premi anche del 50%, come accade ad esempio in Florida e California, due delle aree più esposte ai disastri ambientali. Il business della riassicurazione per i rischi climatici è lucroso e potrebbe esserlo ancora di più, ma è anche sempre più pericoloso. Se la situazione climatica diventa imprevedibile, e quindi con ricadute difficilmente incorporabili nei modelli assicurativi, le perdite a carico delle compagnie possono essere gigantesche.

Lo scorso anno diversi riassicuratori statunitensi hanno sospeso le polizze legate agli eventi climatici in seguito all’uragano Ian, che con i suoi 60 miliardi di dollari di danni è stata la terza tempesta più costosa della storia americana. In particolare dal mercato della Florida sono ormai spariti tutti i grandi assicuratori. Sono rimaste solo le compagnie più piccole, maggiormente disposte a rischiare ma con meno risorse per sopportarne le eventuali conseguenze. Se dal segmento scompaiono i soggetti dalle spalle grosse l’efficacia del sistema assicurativo viene molto ridimensionata. In questo scenario l’Italia, uno dei paesi più esposti al problema e dove appena il 5% degli immobili è assicurato contro eventi climatici estremi, si sta cercando di mettere a punto interventi per favorire un maggior ricorso alle polizze.

Il quotidiano inglese Financial Times rileva come nel settore stia prendendo forma una nuova categoria: il disastro innaturale. Ossia eventi di un’entità del tutto imprevedibile in base alle serie storiche. E quindi, appunto, non assicurabili. Il giornale ricorda come i risarcimenti dei danni alle proprietà immobiliari dovuti a catastrofi naturali negli ultimi due anni abbiano superato la media di 123 miliardi di dollari l’anno, a fronte di una media quinquennale di 100 miliardi e una decennale di 75 miliardi. Chi continua a riporre la sua fiducia nel mercato, supponendo che di fronte alla prospettiva di una catastrofe i suoi meccanismi siano in grado di spostare le risorse laddove servono per evitarla, troverà qui un’altra cartina di tornasole per verificare l’attendibilità delle sue convinzioni. Le ultime indicazioni non sembrano particolarmente incoraggianti. Gli investitori hanno ripreso ad affollarsi intorno alle compagnie petrolifere che grazie alle alte quotazioni di petrolio e gas fanno profitti da capogiro e sedotti dai maxi dividendi sembrano aver smaltito in fretta l’infatuazione per i prodotti finanziari Esg, in teoria più amici dell’ambienee. Tutti i colossi della finanza continuano ad investire massicciamente sulle fonti fossili e non hanno mai davvero pensato di smettere.

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