Giorgio Ambrosoli fu ucciso con quattro colpi di pistola al petto nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 1979, sotto la sua abitazione in via Morozzo della Rocca a Milano. Stava rincasando, dopo aver accompagnato alcuni amici con cui aveva trascorso la serata, quando tre persone gli chiesero: “È lei l’avvocato Ambrosoli?”, lui disse sì, non era certo uno che si nascondeva, poi gli spari. Aveva 46 anni ed ebbe in sorte, oltre a quella morte brutale, di diventare suo malgrado il simbolo di un’Italia pulita sopraffatta dai poteri criminali.

Avvocato di fede monarchica era stato nominato nel settembre del 1974, dall’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli, liquidatore dell’istituto di credito milanese che faceva capo a Michele Sindona, la Banca privata italiana (nata nell’agosto del 1974 dalla fusione delle due banche italiane controllate da Sindona, la Banca unione e la Privata finanziaria, fusione autorizzata dalla nostra Banca centrale). Il potere di Michele Sindona era tanto enorme da renderlo un crocevia unico di interessi criminali, avendo sotto la sua ala massoneria, mafia e politica. Perciò quando la sua avventura bancaria fallì (le perdite erano di 180 miliardi, e fu inutile il tentativo di salvataggio del Credito italiano) non gradì affatto l’arrivo dell’avvocato Ambrosoli che avrebbe messo le mani nelle sue sporche cose: diede perciò ordine di ucciderlo. Nel marzo del 1979 Ambrosoli aveva consegnato ai giudici Urbisci e Viola la relazione sulla liquidazione della Banca privata italiana: sei volumi di 400 pagine dai quali risultava un buco di 257 miliardi di lire.

Era stato ripetutamente minacciato ma Ambrosoli tirò dritto, lui e il suo braccio destro, il finanziarie Silvio Novembre. Due anni dopo, mentre era in carcere a New York, Sindona venne inchiodato con un mandato di cattura come mandante dell’omicidio, insieme al pregiudicato italo-americano, killer professionista, William Joseph Aricò, esecutore materiale dell’omicidio.

Mentre Ambrosoli ripuliva la Banca privata senza arretrare di un passo, la Procura di Roma (marzo ‘79), aveva già orchestrato la trappola per far cadere in disgrazia due valenti uomini dello Stato: il nuovo governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e il vicedirettore con delega alla vigilanza Mario Sarcinelli, accusandoli del tutto infondatamente di interesse privato in atti d’ufficio e di favoreggiamento. Lo scopo era fermarli: stavano ostacolando i disegni di Sindona, di Roberto Calvi, capo dell’Ambrosiano, e dei fratelli Caltagirone implicati nello scandalo di Italcasse, istituto di credito delle casse di risparmio italiane. Offesi nella loro dignità Baffi e Sarcinelli videro a breve ricostituito il loro onore ma le conseguenze di quella azione piratesca della Procura di Roma furono devastanti per l’integrità dello Stato.

Contemporaneamente a tutto ciò, Boris Giuliano, poliziotto intelligente e indomito, stava svolgendo a Palermo un intenso lavoro investigativo sul traffico di droga tra Sicilia e Stati Uniti e sul ruolo criminale dello stesso Sindona in quel commercio. Giuliano, uomo gioviale e allegro, investigatore di grandissimo fiuto, aveva già preso contatti con Giorgio Ambrosoli e i due avrebbero dovuto incontrarsi. Ma prima venne ammazzato Ambrosoli e poi, dieci giorni dopo, il coraggioso poliziotto, stroncato da sette colpi di pistola mentre stava prendendo un caffè in strada. Glieli scaricò addosso il boss Leoluca Bagarella, lo colpì alla schiena, al modo dei codardi.

Michele Sindona poco dopo arrivò in Sicilia ospite delle famiglie mafiose Inzerillo, Spatola e Gambino e il suo viaggio segnò una tappa di una nuova strategia della mafia e dei poteri a essa collegati che includeva attentati a uomini politici e magistrati nell’ambito di un disegno più ampio per stroncare la nuova classe dirigente progressista dell’isola. Il processo di riunificazione dei poteri illegali nell’isola era in corso da tempo ma solo dopo l’arrivo di Sindona i vertici democratici dell’isola vengono davvero decapitati. Sindona era un uomo molto legato al potere, tanto da “meritare” l’appellativo di salvatore della lira da parte di Andreotti: le sue trame erano dunque note agli ambienti istituzionali.

Ambrosoli e Giuliano erano due uomini che non si nascondevano, come invece hanno fatto pezzi dello Stato per proteggere i poteri criminali. I due “eroi borghesi” (così Corrado Stajano chiamò Ambrosoli in un celebre libro) restano un esempio valoroso e alto di come deve essere interpretato il senso democratico delle istituzioni ma, purtroppo, non hanno vinto.

Piuttosto, a scorrere le immagini della nostra attuale classe dirigente, pare che abbia vinto quella borghesia pezzente e predatoria, fatta di immobiliaristi e finanzieri, proprietari di inutili locali alla moda dove giovani rampolli spendono un pacco di soldi a sera. Una compagnia che si crede forte e vincente ma che è senza futuro e senza coraggio.

Articolo Precedente

Il notaio, il commercialista e il re delle scarpe: blitz contro la borghesia mafiosa a Palermo, arrestati gli “insospettabili” amici dei boss

next
Articolo Successivo

Nordio vuole smantellare anche il concorso esterno in associazione mafiosa: “Reato evanescente, va rimodulato”. Dell’Utri, D’Alì, Cosentino: i politici che possono salvarsi

next