Gli Stati Uniti e i loro alleati stanno attualmente discutendo come impostare le relazioni tra la Nato e l’Ucraina: per questo, in vista del vertice di Vilnius dell’11-12 luglio, circolano da alcune settimane delle proposte che paiono più dei papabili sicuri vincitori da “bruciare” prima del “conclave” atlantico in Lituania che delle soluzioni che i leader prenderanno sul serio. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, intervenendo a conclusione di uno storico vertice europeo in Moldovia, poco più di un mese fa ha tenuto a sottolineare che aiutare l’Ucraina a difendersi è “il compito a portata di mano”. Si riferiva a uno scenario preciso: non da oggi raccoglie gradimento in molti circoli americani e nella maggior parte delle cancellerie dell’Europa occidentale l’applicazione del cosiddetto “modello israeliano”.

L’idea è in apparenza semplice e funzionale: vuol dire che Washington e i suoi alleati si metterebbero d’accordo per fornire all’Ucraina una combinazione di armi, impegni di sicurezza e addestramento militare che consentirebbero al Paese – in modo simile a Israele – di scoraggiare e difendersi da ogni futura aggressione russa senza assumersi rischi derivanti dall’adesione di Kiev alla Nato. Vorrebbe anche dire bypassare possibili veti (Budapest?) e dubbi (Berlino? Parigi?) circa la futura membership atlantica dell’Ucraina, permettendo ai responsabili politici di evitare questioni politicamente spinose e divisive. Ma è davvero così?

Innanzitutto, l’intero modello ha molto di déjà-vu: se si parla solo di trasferimenti di armi, tecnologie e know-how, che cosa cambia rispetto allo scenario attuale delle relazioni tra l’Ucraina e gli “amici atlantici”? Si è passati in circa 500 giorni di guerra dall’invio di Javelin alla fornitura di HIMARS, missili a medio raggio, bombe a grappolo, moderni carri armati e prossimamente anche di F16, per non dire dell’addestramento di migliaia di soldati: al di là dell’accanimento sulle infrastrutture e la popolazione civili ucraine, Mosca non ha realizzato alcuna delle minacce nemmeno troppo velate di questi mesi dopo ogni “upgrade” del piano di aiuti, né può pensare di usare l’arma nucleare in una guerra convenzionale e dopo simili performance.

Non dobbiamo farci ingannare: il modello israeliano non è stata una scelta politica intenzionale né per Washington né per Gerusalemme come sarebbe il proporlo a Kiev. A differenza di quanto molti credono, il sostegno degli Stati Uniti non è iniziato con la creazione dello Stato di Israele: dopo aver mostrato molta freddezza al momento dell’indipendenza dello Stato ebraico (l’Unione Sovietica e la Jugoslavia riconobbero quasi subito il nuovo governo, a differenza degli americani), gli Usa iniziarono ad armare Israele solo negli anni Sessanta con una decisione derivante dalla logica della Guerra Fredda invece che dalle pressioni di una lobby filoisraeliana che allora nemmeno esisteva. La realpolitik imponeva di contenere il potere e l’influenza sovietici in Medio Oriente e stabilire un ordine regionale guidato dagli Stati Uniti, anche attraverso Israele. Col crollo dell’Urss, i leader israeliani sono passati dal credere che Washington sarebbe stata sempre lì per salvarli alla certezza che per gli americani l’intrappolamento nell’alleanza di fatto con Israele non era più funzionale al raggiungimento degli obiettivi geopolitici e geostrategici nella Regione mediorientale.

La relazione Usa-Israele, poi, è bilaterale e non collettiva. Siamo sicuri che tutti i leader occidentali potrebbero dire a Zelensky – in modo credibile e all’unisono – come il presidente John F. Kennedy disse all’allora ministro degli Esteri israeliano Golda Meir nel 1962: “Gli Stati Uniti hanno un rapporto speciale con voi nella vostra regione, paragonabile solo a quello che ha con la Gran Bretagna su una vasta gamma di affari mondiali”?

Poi, il quadro geopolitico è solo in apparenza simile: in Medio Oriente e Nord Africa gli Usa hanno dovuto fare la scelta di trattare Israele come un “amico speciale” e non inserirlo in un’alleanza tout court per non rovinare i rapporti con alcuni governi arabi – anche loro – “amici speciali” nella Penisola Arabica e nel Golfo Persico. Nell’ex Urss è solo la Russia che chiede a Washington di sedersi e decidere insieme le reciproche sfere di influenza: lasciare Kiev nel mezzo vorrebbe dire fare il gioco di Mosca senza vantaggio alcuno, dato che già adesso l’Ucraina riceve lo stesso trattamento di Israele e dei Paesi arabi “amici”.

Il quadro dei rapporti bilaterali Usa-Israele non presenta un impegno formale da parte degli Stati Uniti: dal 1975 ai giorni nostri i due Paesi hanno firmato solo memorandum in cui Washington si è impegnata – a sua discrezione – per la sopravvivenza e la sicurezza di Israele, il suo equipaggiamento, il suo fabbisogno energetico e i suoi bisogni economici”. Al massimo Washington è arrivata a nominare Israele come “importante alleato non Nato” con una dichiarazione pubblica che hai è reso più costoso per i leader statunitensi fare marcia indietro senza pagare un prezzo elevato in termini di reputazione come partner strategico affidabile. Un quadro privo di impegni da parte di Washington? Ma a dire il vero anche l’articolo 5 del Trattato atlantico richiede ai membri di prendere “le azioni necessarie” per sostenere un alleato se viene attaccato, ma non impone ai membri alcun obbligo legale di combattere direttamente.

In concreto, gli Stati Uniti hanno finora fornito a Israele circa 158 miliardi di dollari in assistenza militare. Suona già simile a quanto fatto per Kiev dal 2021. Insomma, il modello israeliano ha il difetto di essere una minestra riscaldata, un misto tra il memorandum di Budapest (calpestato dai Russi nel 2014 e nel 2022) e quanto visto negli ultimi mesi, senza vantaggi né per chi lo propone né tantomeno per chi lo dovrebbe accettare. Se è finito sui giornali è perché – come si dice – si parla a nuora perché suocera intenda: quello che il cittadino legge e trova un modello interessate, per i leader vuol dire, più realisticamente, che o l’Ucraina viene inserita nel quadro atlantico oppure i governi dovranno continuare a farsi carico di enormi spese militari per i decenni a venire. Insomma, sembra proprio un papabile da bruciare alla svelta.

E pensare che il primo a sollevare il paragone con Israele era stato all’inizio della guerra, nell’aprile 2022, lo stesso presidente ucraino Zelensky che si era detto sicuro che la sicurezza sarebbe stata la sfida principale di Kiev per il prossimo decennio e che gli ucraini avrebbero dovuto essere armati e addestrati sul modello israeliano, anche se con un volto diverso e peculiare.

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