Cooperative ‘spurie’ nella produzione del melone del mantovano, turni massacranti per gli operai che lavorano nell’industria delle insalate in busta tra Bergamo e Brescia, contratti pirata e lavoro grigio nel settore della macellazione dei suini tra Mantova e Cremona. In Italia, il caporalato non riguarda solo le regioni del Sud e queste sono le nuove e più ‘sofisticate’ forme dello sfruttamento sui campi nel Nord. Lo racconta l’associazione ‘Terra!’ nel dossier ‘Cibo e sfruttamento-Made in Lombardia’, che indaga su modalità di reclutamento, condizioni di lavoro, ma anche difficoltà di fare agricoltura oggi e vuoti creati dalla fragilità dei servizi pubblici e colmati dai soggetti intermediari. Realtà affrontate anche nel nuovo podcast dal titolo ‘Sulle spalle degli altri’, realizzato da Susanna Bucci e Paolo Butturini e prodotto da Akùo. Iniziativa di OverPress Media in collaborazione con Flai-Cgil, il podcast racconta invece delle filiere dell’Amarone della Valpolicella, della cipolla di Tropea, del pomodoro pugliese e del kiwi del basso Lazio. “A distanza di anni e da ben altre latitudini, con questo lavoro sul campo, abbiamo la prova che il costo del lavoro sia ancora il più sacrificabile dell’intera filiera. Abbiamo la conferma di quanto il lavoro grigio in agricoltura sia praticamente la regola” spiega Fabio Ciconte, direttore dell’Associazione ‘Terra!”.

Il podcast ‘Sulle spalle degli altri’ – Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto sulla ‘Geografia del caporalato’ Flai-CGIL, sono 405 i distretti del paese in cui viene commesso il reato di sfruttamento del lavoro in agricoltura e, di questi, circa un terzo si trova nel Nord Italia. Ci arriva anche “Sulle spalle degli altri”, disponibile sulle principali piattaforme: viaggio realizzato attraverso il racconto e le voci dei protagonisti, nei territori in cui si coltivano e si confezionano anche ‘cibi aristocratici’: dal ricco Nord-Est alla Capitanata, dove “le donne lavoratrici sono quasi tutte italiane”. Si parte proprio da una bottiglia da 350 euro di Amarone di Valpolicella, 70 euro a bicchiere. Cosa c’è dietro? Migliaia di uomini e donne, italiani e non, che raccolgono l’uva. Come Sayid, che racconta l’inferno in prima persona. Undici ore di lavoro, per 5 ore all’ora, nonostante il procedimento più delicato richiesto per l’uva che serve per produrre un prodotto tanto pregiato. La verità è che nelle varie filiere, dopo la legge anti-caporalato del 2016, lo sfruttamento ha assunto sembianze nuove: cooperative, società e agenzie che sembrano lavorare in un quadro di legalità, pur somministrando manodopera senza rispettare gli appalti e i contratti collettivi nazionali.

Il dossier di ‘Terra!’: il secolo dei meloni – Storie anche lombarde, come si legge già nel primo capitolo del report di ‘Terra!’, realizzato con il sostegno della Fondazione Cariplo e dedicato a quella che è la prima regione italiana nell’agro-alimentare, con una produzione del valore di oltre 14 miliardi di euro. La Lombardia è anche la seconda produttrice di meloni in Italia, dopo la Sicilia. I lavoratori moldavi e dell’est Europa, più forti fisicamente ma anche più ricattabili, stanno sostituendo i lavoratori marocchini. Tassello importante è quello delle cooperative ‘spurie’ nate per convogliare ‘braccia’ nelle aziende agricole durante i periodi in cui è necessaria maggiore forza lavoro. Lo sfruttamento avviene in due modi: o l’azienda agricola versa alla cooperativa il corrispettivo giusto, ma la cooperativa elargisce uno stipendio da fame ai lavoratori, oppure c’è connivenza anche dell’azienda agricola. Un danno per un settore di eccellenza, tutelato dal Consorzio del melone mantovano IGP. La piaga più in espansione è quella del lavoro grigio, basato su un tacito (e spesso obbligato) accordo tra lavoratore e imprenditore, che non registra mai più di 180 giornate, necessarie ad accedere alla disoccupazione. Così paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità. Quest’ultimo, potrà chiedere gli ammortizzatori sociali. Altre volte, i lavoratori sono costretti a restituire in contanti parte del salario ricevuto. Ma il problema, come “Terra!” e ilfattoquotidiano.it hanno già raccontato in passato, è spesso a monte. Quasi tutti i produttori intervistati nel report denunciano un mercato in cui è la Grande distribuzione organizzata (Gdo) a imporre prezzi bassi ai produttori e a comprimere indirettamente anche i diritti dei lavoratori. “La Gdo vuole un melone da battaglia, pretendendo ribassi su ribassi” raccontano i produttori. E la troppa quantità genera un ulteriore livellamento. Il resto lo ha fatto il caro esponenziale dei costi energetici e delle materie prime, registrato nel 2022.

La fabbrica delle insalate – Le stime indicano che il 31% della produzione delle insalate in busta (o quarta gamma) è in Lombardia. Nelle province di Bergamo e Brescia, l’avanzata è visibile a colpo d’occhio. Il settore della IV gamma è il “partner ideale” della Gdo: frutta e verdura prodotte in serie, standardizzate, qualitativamente ineccepibili e funzionali alle aspirazioni dei mercati. La distribuzione detta ritmi e tempi della produzione e ne fissa i parametri. Nel 2020, un chilogrammo di insalata pret-à-manger valeva mediamente 7 euro e 21 centesimi. A parità di peso, l’insalata sfusa, in cespo, 2 euro e 19 centesimi. Ma con la crisi energetica del 2022, l’industria delle insalate in busta ha mostrato il volto dell’insostenibilità, economica e ambientale. L’aggravio dei costi di produzione, tra il ferro, la plastica, i fertilizzanti, la refrigerazione costante degli ambienti di stoccaggio è stato di oltre il 20% e qualcuno si sta interrogando sui modelli alternativi da mettere in campo. E se da un lato si assiste a una standardizzazione dei processi, dall’altra emergono forti criticità delle condizioni di lavoro. I lavoratori sono perlopiù indiani Sikh, che vivono intorno ai centri produttivi. Il lavoro è ripetitivo e usurante. Molte imprese hanno esternalizzato porzioni sempre più consistenti della manodopera per diverse fasi della produzione, affidandosi ad agenzie per il lavoro, cooperative e Srl che subappaltano ad altre società. Ciò ha determinato flessibilità e precarizzazione della forza lavoro, sufficientemente elastica alla ciclicità produttiva dettata dai desideri commerciali just in time dei supermercati.

La terra dei suini – “Qui ci sono più maiali che esseri umani” è una frase che nella provincia di Brescia viene recitata come un mantra. D’altronde la Lombardia ospita il 50% dei capi suini presenti su tutto il suolo nazionale, oltre 4 milioni stipati in 6.747 allevamenti. La peculiarità della lavorazione dei suini in Italia è sicuramente la frammentarietà di un settore diviso in tante piccole imprese: allevatori, macellatori e trasformatori. Questa debolezza si riversa sulle fasi della commercializzazione, con marginalità di guadagno ridotte per le aziende di trasformazione, conseguenza di politiche molto aggressive di discount e insegne della distribuzione anche per prodotti Dop e Igp che finiscono per essere posizionati anche loro tra quelli più convenienti. In una filiera così frammentata, costretta a mantenere bassi i costi di produzione, l’esternalizzazione del lavoro a cooperative o agenzie di somministrazione sembra la regola. Nei macelli, però si vedono spesso lavoratori dell’azienda e della cooperativa svolgere le stesse identiche mansioni, anche se non potrebbero. Gli effetti del sottoinquadramento contrattuale della manodopera, una costante specie quando si tratta di lavoratori migranti, perché più ricattabili. E in questi casi, i contratti più diffusi sono il Multiservizi o quello delle Pulizie, più convenienti perché con buste paga di 400/500 euro inferiori rispetto al contratto di riferimento dell’industria alimentare. Queste violazioni, tra l’altro, si inseriscono in un settore fortemente impattante sul territorio lombardo da un punto di vista delle emissioni e del benessere animale.

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