In Veneto la Liga-Lega ha spento le parole di lotta contro la gestione del partito voluta da Matteo Salvini, che hanno infiammato gli ultimi due anni di un dibattito rivelatosi sterile. Ma ha anche rinunciato a fare i conti con la disfatta elettorale di settembre, quando è stata umiliata alle politiche (e più che doppiata in termini di voti) dall’inarrestabile ascesa di Fratelli d’Italia. E poi è risuonato il grande, sostanziale silenzio di Luca Zaia. Il governatore più votato di sempre, il leghista più popolare e potente dal Polesine alle Dolomiti, ha preferito assistere all’estinzione dei focolai della protesta, indicando ecumenicamente un orizzonte di modernità e di orgoglio veneto, perfino un “nuovo rinascimento”, senza però affrontare le ombre del medioevo in cui la Lega sembra essere sprofondata.

Visti i sette anni trascorsi dall’ultimo congresso regionale della Liga Veneta-Lega Nord e i quattro anni di commissariamento voluti da Salvini, ci si sarebbe attesi la celebrazione di un appuntamento scoppiettante, ricco di idee, proiettato verso il futuro, in tema di alleanze e di progetti per il Veneto. Invece, il 24 giugno a Padova è andata in scena un’assemblea vuota di proposte, giocata su contrapposizioni fittizie, visto che quelle reali erano state disinnescate nei giorni precedenti. Alla fine a vincere è stato Salvini, mentre Zaia ha fatto la sfinge, evidentemente più preoccupato per lo scenario dell’inarrivabile autonomia e per la concreta possibilità che si spalanchi per lui un quarto mandato, se le forze politiche nazionali troveranno un accordo per riformare la legge che ha messo un limite.

Il congresso regionale ha deciso che il commissario salviniano Alberto Stefani, 30 anni, sindaco di Borgoricco e deputato già alla seconda legislatura, succederà a sè stesso. Praticamente non ha avuto avversari, visto che con 288 voti su 454 votanti ha sbaragliato il trevigiano Franco Manzato, ex deputato ed ex sottosegretario. Soltanto 160 consensi sono andati all’esponente dell’ala bossiana, appoggiato dall’eurodeputato eretico Toni Da Re, dall’ex sindaco di Treviso Giampaolo Gobbo e dal segretario trevigiano Dimitri Coin. Il fatto è che il vero antagonista di Stefani era l’assessore regionale Roberto Marcato, mister preferenze del Veneto, a cui la vicinanza con Zaia non ha però portato l’aiuto che poteva sperare. Anzi, lo ha perfino danneggiato, visto che il governatore non si è sbilanciato sulle candidature, forse preoccupato di non scatenare la guerra. Tuttavia Marcato per due anni si è proposto in tutti i modi, indicando una linea della Liga delle origini ancorata al territorio e contraria al centralismo lombardo, salvo poi scoprire che chi avrebbe dovuto appoggiarlo aveva tirato fuori dal cilindro il nome di Manzato, meno divisivo e in apparenza più vincente.

Così, a pochi giorni dal congresso, Marcato si è fatto da parte e non ha nemmeno partecipato all’assise che si è tenuta all’hotel Sheraton. L’analisi più disincantata l’ha fatta proprio lui, che si è detto vittima di un tradimento. Intervistato da Il Mattino di Padova ha spiegato: “Al congresso non si è quasi parlato di linea, assetto, programmi, alleanze. Qualche buon proposito e poi soltanto di caselle da occupare. Dov’è finito il fuoco sacro? In Veneto, Fratelli d’Italia ci ha sorpassato centrando il miglior risultato sul piano nazionale: confidavo in una reazione rabbiosa, invece siamo piombati in uno stato di sonnolenza. Perdiamo un capoluogo dopo l’altro e nessuno fiata. La spinta propulsiva si va attenuando, di questo passo il partito si arenerà”. In effetti a parlare sono stati solo i due candidati Stefani e Manzato, oltre al governatore Zaia e a quattro militanti. In silenzio tutto il drappello di parlamentari, i due sottosegretari Massimo Bitonci e Andrea Ostellari, i molti sindaci presenti.

Deludente per un congresso tanto atteso. Proprio all’indirizzo di Zaia, lo scornato Marcato ha dedicato una frase non ambigua. Al giornalista Filippo Tosatto che gli chiedeva se si sarebbe aspettato un appoggio esplicito del presidente della giunta regionale, ha risposto: “Assolutamente no. Chi nasce tondo non può morire quadrato”. Non può certo definirsi un complimento, anzi mette a fuoco la figura di Zaia che si è sempre chiamato fuori da beghe di partito, pur tirato più volte per la giacchetta, soprattutto quando gli veniva chiesto se avesse ambizioni di dare la scalata alla segreteria federale. Anche a Padova Zaia è rimasto alla finestra. Ha citato i corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico per spiegare che come la Lega è passata dal 3 al 38 per cento, allo stesso modo potrà risalirà dai livelli attuali. Una forma di fatalismo, più che il piglio di un leader intenzionato (o interessato) a governare i processi del proprio partito.

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