“Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?”. A distanza di 1600 anni dall’esperienza di vita che portò Sant’Agostino a questa affermazione perentoria, sembra incredibile quanto sia ancora calzante nel descrivere la condizione dei familiari delle vittime della strage di Viareggio. A quattordici anni dall’evento che ha segnato per sempre le loro vite, portandoli via in modo atroce gli affetti più cari e spesso parti del loro stesso corpo, si trovano infatti di fronte all’ennesima beffa intollerabile perpetuata a loro danno dal sistema giustizia dello Stato italiano.

Dopo l’incredibile sentenza di Cassazione dell’8 gennaio 2021 con cui la corte ha deciso che il deragliamento di un treno guidato da lavoratori sulla base di un incarico lavorativo per cui dovevano portare un carico commerciale acquistato da qualcuno e venduto da altri – quindi non per una gita – non deve essere chiamato “incidente sul lavoro”, i familiari delle vittime della strage di Viareggio pensavano di averle viste tutte.

Invece il finale riserbava ancora sorprese negative. Esattamente un anno fa il sistema giustizia dello Stato italiano ha dato loro la quarta conferma-sentenza che tredici persone hanno avuto una responsabilità penale su quanto accaduto il 29 giugno 2009 nella stazione di Viareggio, quindi su un incidente ferroviario, trasformatosi in disastro e conclusosi nella strage che ha ucciso 32 vittime innocenti, ferito un centinaio di persone e quasi annientato un quartiere della cittadina toscana. E quando dopo 14 anni di processi, un tribunale ti dice “questi sono i colpevoli anche per noi, sentiamo cosa dice la Cassazione” ti aspetteresti che l’indomani tutto quanto necessario per mettere la parola fine a questa storia giudiziaria sia realizzato.

E invece no: il sistema giustizia dello Stato italiano ha deciso che non è ancora il tempo dell’efficienza e dell’interesse prioritario. Ed ha lasciato il fascicolo del processo in Tribunale a Firenze, per motivi ad oggi ignoti, permettendo così un ritardo che parrebbe cucito addosso alla possibilità di arrivare alla sentenza finale della Corte di Cassazione (terzo e ultimo grado di giudizio), dopo il compimento dei settant’anni del principale condannato – per ora in appello-bis – Mauro Moretti. Moretti all’epoca ad di Rete Ferroviaria Italiana e ex ad di Ferrovie dello Stato ha ricevuto infatti dalla Corte d’appello di Firenze una condanna a 5 anni. E compiuti settant’anni, qualora la Cassazione confermasse la condanna, eviterebbe il carcere, sostituito con un anno di domiciliari e i rimanenti in servizi sociali.

Io non credo che l’attenzione di un paese debba fermarsi al fatto se un condannato di settant’anni debba avere o meno delle condizioni di reclusione – e quindi rieducazione secondo quanto dice la nostra Costituzione Repubblicana – diverse da un sessantanovenne. Io credo che l’attenzione di questo paese dovrebbe fermarsi sul tempo come indicatore di decenza. Sulla variabile in cui il tempo diventa metro per valutare l’interesse di uno Stato verso un evento come la strage di Viareggio e l’idea di giustizia da questo rappresentata.

Quando un sistema giustizia ci mette 14 anni per arrivare a decidere se sei o non sei responsabile di qualcosa, e avviarti ad una qualche forma di rieducazione a riguardo, non sta solo commettendo un errore di efficienza. Sta traducendo la sua applicazione della legalità in un esercizio quasi lezioso, di facciata, sconnesso dal fine per cui esiste la legge: rendere giuste le relazioni tra chi gravita nel territorio di uno Stato per rendere il suo sistema sostenibile.

Il tempo e la sostenibilità sono due concetti molto connessi. Marco Piagentini quella notte di 14 anni fa perse una moglie e due dei tre figli, Lorenzo e Luca di 2 e 4 anni, oltre alla possibilità per sempre di prendere il sole. Ci ha messo meno tempo il suo corpo col 98% di ustioni e la sua mente devastata dai lutti a trovare un equilibrio sostenibile in questa vita – ha allargato e rinnovato la sua famiglia – che lo Stato a definire responsabilità e rieducazione per chi ha causato a lui e alle altre trentuno famiglie questo disastro esistenziale inenarrabile.

Lo Stato italiano su Viareggio, come su altre stragi analoghe, sembra quasi costretto a concedere scarne caricature della giustizia per salvare la faccia. Preferendogli di molto l’oblio e qualche palliativo assicurativo. Quell’evento di 14 anni fa a Viareggio poteva cambiare il concetto di sicurezza ferroviaria, imporre leggi di maggior tutela, determinare – attraverso la rapidità stessa di giudizio penale – un cambio di atteggiamento popolare nei confronti del concetto stesso di responsabilità diffusa, dall’apice alla base di un’organizzazione, di fronte a fatti di questa gravità. Quell’evento poteva aiutarci a migliorare. Come Stato. Come persone. Come sistema paese. Invece solo pochi mesi fa, a febbraio, si è sfiorato il bis a Viareggio.

Un treno merci, con un carico di gpl, stavolta è stato fermato in tempo in stazione, per un problema pare noto, ai pattini dei freni. Si è sfiorata la tragedia, nella stessa stazione dove quello stesso tipo di treno 14 anni fa aveva dato una rappresentazione reale dell’inferno. E nel frattempo altri eventi drammatici, penso al crollo del Ponte Morandi, stanno palesando quanto la responsabilità in questo paese sia un concetto letto dai vertici delle organizzazioni più in senso di rischio assicurativo che di guida etico-gestionale.

Ecco perché anche quest’anno io sarò a Viareggio accanto ai miei amici viareggini. A persone straordinarie come Marco Piagentini, Daniela Rombi e Riccardo Antonini, ferroviere che ha pagato con il licenziamento l’essersi schierato dalla parte giusta dell’etica e sbagliata della storia in questo paese diversamente civile. Eroi gentili del nostro tempo che ho avuto l’onore di conoscere e che continuano giorno dopo giorno a farmi sperare nel domani quando li vedo combattere le battaglie più vicine per raggiungere gli scopi più lontani. Il 29 giugno di quest’anno lo faranno dibattendo nel pomeriggio con gli ex Procuratori della Repubblica, Beniamino Deidda e Giuseppe Amodeo, e il sostituto procuratore Salvatore Giannino, proprio sul tema “Il tempo la sta uccidendo”.

In piccolo nel volantino si può leggere la vittima col nome latino: “IVSTITIA”. Un delitto plurimillenario ormai. Poi alle 20.30 si ritroveranno davanti alla stazione di Viareggio con chi come me da più di dieci anni si stringe a loro in questa giornata anniversario. Per camminare insieme e sentirsi di dare forma all’unica vera forma di giustizia rimasta in questo paese troppo spesso ridotto a quella “banda di ladri” richiamata da Sant’Agostino: la solidarietà verso le vittime.

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