Di fronte ai numeri drammatici, con l’Italia che rischia di ritrovarsi ai margini dell’industria della mobilità ecologica, l’idea profonda è quella di un lotta sindacale europea perché la sfida è “epocale” e il rischio è quello di finire gli uni contro gli altri. Ma è in primis il nostro Paese, fanalino di coda nella produzione con quasi 940mila automobili in meno prodotte nel 2022 rispetto al 1999, ad avere l’urgenza di fare rete. Dalle fabbriche esce un terzo dei veicoli che venivano prodotti nel 1999 e la partita sul futuro di Stellantis sembra aver preso la via francese, così la Fiom mette allo stesso tavolo i sindacati tedeschi, cechi, polacchi, spagnoli e ungheresi. Parola d’ordine: coordinarsi. “Dobbiamo costruire una piattaforma europea, serve una scelta radicale perché governi e aziende non ascoltano. Abbiamo un cambiamento epocale in corso e un interrogativo davanti a noi: siamo in grado di fare uno sciopero europeo, se non arrivano risposte? Noi siamo pronti a sostenerlo”, annuncia il segretario generale Michele De Palma a venti giorni da quel 2 giugno che ha portato i metalmeccanici della Cgil fuori dai cancelli del quartier generale di Stellantis a Parigi per bussare alla porta dell’amministratore delegato Carlos Tavares, silente da mesi sulle richieste di incontro avanzate dal sindacato per affrontare il tema del ruolo degli stabilimenti italiani nel futuro del gruppo franco-italiano. Così a dieci giorni dallo sciopero di quattro ore proclamato insieme a Uilm e Fim, il leader della Fiom chiarisce: “È solo un avvertimento, se dovesse seguire il silenzio agiremo di conseguenza”.

“L’Ue unita o sarà guerra fratricida” – E le promesse del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, di un accordo entro agosto con Stellantis sulla transizione per concordare, a fronte di un aumento della produzione in Italia, eventuali strumenti per accompagnare la riconversione del settore e dell’indotto, vengono già valutate come l’ultimo annuncio di una lunga serie destinato a rimanere sulla carta: “Per farcela dovremmo avere già ora una serie di tavoli convocati. Non ci sono e questo ci preoccupa, perché significa lanciarla alta e poi non trovare un elemento effettivo – spiega a Ilfattoquotidiano.it – Del resto era già successo con Ilva, quando il ministro aveva annunciato che c’erano le condizioni per decidere entro giugno l’eventuale passaggio in maggioranza da parte del governo. L’esecutivo deve comprendere che i sindacati e i lavoratori non sono spettatori delle loro decisioni che devono poi governare gli effetti negativi delle scelte fatte dalle imprese e dallo Stato”. Un messaggio ampliabile allo scenario europeo: “Se l’Ue, di fronte al piano statunitense che discende dall’Inflation Reduction Act e quello cinese su elettrificazione e commercializzazione mondiale dei suoi veicoli, non sceglie una politica industriale con partecipazione di aziende e sindacati, entrerà a breve in una guerra fratricida e il conto salato della transizione sarà scaricato sugli stipendi dei lavoratori”. Un guanto di sfida raccolto dai metalmeccanici degli altri Paesi, riuniti alla Camera del lavoro di Milano.

La crisi europea, compresi i bus tedeschi – Ognuno porta il proprio pezzo di cahiers de doleances: i sindacati tedeschi si focalizzano sulla produzione degli autobus, con i marchi Man e Scania di Volkswagen che hanno delocalizzato in Turchia e Polonia la produzione di pullman completi, lasciando in Germania la sola componentistica. E anche Daimler, nonostante conti ancora da sola 8.100 dipendenti, ha annunciato in primavera di voler trasferire la produzione da Mannheim. Mentre in Italia si “sta riproducendo sui bus quanto già avvenuto con le auto: si punta sul lusso e si sfornano quasi esclusivamente motori diesel, così soffriremo il passaggio all’elettrico”. Ma l’accelerazione è tale che anche Ungheria e Repubblica Ceca, visti vent’anni fa come i Paesi che drenavano produzioni centenarie, si ritrovano due decenni dopo a fare i conti a loro volta con la delocalizzazione. “Sul carbone, insieme all’acciaio, nacque l’Europa, oggi sull’addio a quella materia prima si gioca il futuro del continente”, è la sintesi di De Palma. La fotografia è nei numeri raccolti da Matteo Gaddi della fondazione Claudio Sabbatini: la Germania sforna 1,8 milioni di vetture in meno rispetto al 1999 (-34%), la Francia vive una crisi assimilabile a quella italiana con una produzione ridotta alla soglia psicologica del milione dopo aver viaggiato a 2,78 sul finire dello scorso millennio. Eppure le auto continuano a essere richieste, come mostrano i saldi ampiamenti negativi tra veicoli prodotti e immatricolati negli ex Paesi leader. L’asse è ormai spostato nell’Est Europa, dove spicca il caso della Slovacchia, un milione di auto prodotte a fronte di 78.841 immatricolazioni.

La mattanza dei posti e le scelte di Stellantis – L’Italia paga principalmente la scomparsa della produzione di Lancia, gli 1,1 milioni di veicoli prodotti da Fiat nel 1999 diventati 213.632 nel 2021 e, nello stesso periodo, le 233.207 Alfa Romeo ridottesi a 44.483. Così si è passati dai 210.300 occupati nell’automotive del 1995 ai 172.930 del 2020. E il taglio occupazionale, avverte la fondazione Claudio Sabbatini, non è ancora finito: l’accordo sindacale dello scorso febbraio con Stellantis, senza la firma della Fiom, prevede l’addio del 9% della forza lavoro in azienda. Tradotto: 2.107 posti di lavoro in meno. E le mosse strategiche del gruppo franco-italiano non possono che allarmare. La produzione dei modelli destinati al mercato di massa sarà in Polonia, per i veicoli di segmento B verrà utilizzata la piattaforma di Peugeot e Stellantis ha recentemente costituito la società SiliconAuto insieme a Foxconn per la produzione di semiconduttori con stabilimenti in Asia. L’unica indecisione nel piano industriale? Riguarda proprio la missione delle fabbriche italiane. “La nostra politica non sta vedendo arrivare il cambiamento”, avvisa De Palma ricordando la crisi della Lear di Grugliasco, specializzata nella produzione di sedili e tagliata fuori dalla commessa per le sedute della 500e in favore dei turchi di Martur. Come raccontano i dati, la situazione italiana è “molto preoccupante – spiega – perché abbiamo un ritardo rispetto agli altri paesi europei”. Alla transizione si aggiunge una crisi che va avanti da più di dieci anni: “In questo scenario le imprese e il governo – conclude – devono rispondere alla questione che poniamo come lavoratori: siamo in un processo di transizione o di dismissione della produzione di mobilità nel nostro Paese?”.

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