di Pier Cesare Notaro*

Sui diritti Lgbtqia+ preferite il principe saudita Mohammed bin Salman, che usa politicamente le condanne a morte per omosessualità, o il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che scatena la violenza della polizia contro i Pride? Nella lista dei dittatori e dei politici autoritari clienti di McKinsey & Company ci sono entrambi. Ma questa società di consulenza globale non si limita a fare affari con alcuni dei politici più intolleranti e sanguinari del mondo: è anche uno degli sponsor del Milano Pride. Amore ecumenico o bisogno di rifarsi un’immagine?

Se sono retoriche le domande sul perché alcune multinazionali finanzino una manifestazione per i diritti, sono più concreti i dubbi sul perché il Milano Pride quest’anno abbia una lista di sponsor così impresentabile. Come abbiamo analizzato su Terra d’Arcobaleno, tra le imprese che sovvenzionano la manifestazione meneghina i comportanti decisamente censurabili abbondano. Solo per riportare un paio di brevi esempi, ben due degli sponsor (il Boston Consulting Group, oltre alla già citata McKinsey & Company) sono stati al centro di un’inchiesta del New York Times (2018) per “una redditizia alleanza saudita, che plasma la visione del principe ereditario” Mohammed bin Salman. Un rapporto di Greenpeace ha accusato Nestlé e Mondelez, insieme ad altri grandi marchi mondiali, di aver utilizzato fornitori di olio di palma che in Indonesia “hanno distrutto un’area di foresta pluviale grande quasi il doppio di Singapore in meno di tre anni”.

Tra tanti Pride in Italia e nel mondo, sempre più attenti alla selezione degli sponsor (e a volte decisi a rifiutare qualsiasi sponsorship), il Milano Pride sembra fare il percorso inverso. Nel 2019 aveva già fatto scandalo per la scelta di dare grande spazio ad aziende simbolo dello sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, da Deliveroo ad Amazon (con lo slogan di Just Eat, “Abbiamo fame di diritti”, su cui non si sapeva se ridere o piangere). Allora, proprio su Il Fatto Quotidiano, l’organizzazione del Pride aveva assicurato “un confronto serio dal giorno dopo la manifestazione, che porti a stabilire criteri oggettivi e condivisi su quali sponsor accettare e quali no”.

Il confronto è stato così serio che nel 2023 troviamo tra gli sponsor non solo chi “semplicemente” (scusate l’eufemismo) calpesta i diritti di chi lavora, ma una sfilza infinita di società non estranee alle più atroci crisi umanitarie ed ecologiche. Un altro esempio? Kraft Heinz, secondo il Wall Street Journal (2019), è “invischiata nella campagna della Cina per assimilare con la forza la sua popolazione musulmana”.

In passato si è tentata la carta della contestazione interna, riconoscendo comunque il valore della manifestazione. Non solo i risultati sono stati deludenti (prometto che sarà l’ultimo eufemismo), ma la possibilità di contestare viene pure presentata come un punto d’onore da chi difende la scelta degli sponsor.

Per questo sempre più persone, me compreso, scelgono di prendere completamente le distanze dalla manifestazione. Per ricordare che nell’arcobaleno dei diritti ci sono anche le lesbiche aggredite in Turchia, i dissidenti arrestati in Arabia Saudita, le schiave bambine in Indonesia, gli uiguri perseguitati in Cina… Ci sono, in altre parole, le vittime nascoste da troppi sponsor del Milano Pride.

*Attivista queer – Terra d’Arcobaleno

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