Alcuni giorni fa, nel centro di accoglienza rifugiati dove lavoro, ho accolto una decina di persone provenienti da diversi continenti, tra i quali un ragazzo egiziano di circa 35 anni. Dopo che ho registrato le sue generalità sui moduli di accoglienza, gli ho fatto vedere il suo posto letto e gli ho consegnato un cambio. Alcune ore dopo, mentre ero in ufficio da solo a sistemare le cose di lavoro, l’ho visto tornare da me e mi ha consegnato un coltello dicendomi: “Questo coltello l’ho tenuto con me durante il viaggio per la mia difesa in caso di pericolo, ma ora non ne ho più bisogno perché mi sento protetto in un posto sicuro”.

Ogni anno, il 20 giugno, il mondo celebra il Giorno Mondiale del Rifugiato per onorare la forza, il coraggio e la perseveranza di milioni di persone che sono state costrette a lasciare le proprie case a causa di conflitti, persecuzioni e violenze. Quest’anno è importante riflettere sulla recente tragedia avvenuta il 15 giugno in Grecia, dove una barca affollata di rifugiati si è rovesciata nelle acque del Mediterraneo, 78 morti. Questo incidente ha portato alla perdita di vite umane innocenti, mettendo in evidenza l’urgenza di affrontare la crisi dei rifugiati.

Con circa 500 persone che si temono ancora disperse, secondo The Guardian nuovi resoconti dei sopravvissuti indicano che donne e bambini sono stati costretti a viaggiare nella stiva e che alcune nazionalità sono state condannate alla parte più pericolosa del peschereccio. Secondo testimonianze trapelate raccontate dai sopravvissuti alle guardie costiere, i pakistani sono stati costretti sottocoperta, con altre nazionalità ammesse sul ponte superiore, dove avevano maggiori possibilità di sopravvivere a un ribaltamento.

Le testimonianze suggeriscono che donne e bambini siano stati effettivamente “rinchiusi” nella stiva, apparentemente per essere “protetti” dagli uomini sulla nave sovraffollata. The Observer ha appreso che anche i cittadini pakistani sono stati tenuti sottocoperta, con i membri dell’equipaggio che li maltrattavano quando apparivano in cerca di acqua fresca o cercavano di scappare.

Negli ultimi dieci anni, migliaia di persone hanno perso la vita mentre cercavano di raggiungere l’Europa attraverso pericolosi viaggi via mare. Queste persone, spesso disperate e senza alternative, si affidano a barconi sovraffollati e insicuri, mettendo a rischio la loro vita pur di cercare una speranza e una nuova opportunità in Europa. È un triste tributo alle condizioni disumane e al pericolo che affrontano i rifugiati in cerca di sicurezza.

Durante la mia esperienza di lavoro nei centri di accoglienza per rifugiati, ho visto di persona e continuo a vedere le sfide e le difficoltà che affrontiamo nel fornire assistenza a coloro che hanno perso tutto. Anche le organizzazioni umanitarie e i volontari fanno del loro meglio per rispondere a questa crisi umanitaria, ma senza un sostegno adeguato è difficile garantire una vita dignitosa ai rifugiati.

Oggi siamo in uno stato di emergenza rifugiati, e ogni settimana ci sono nuovi sbarchi anche se sui giornali o in tv non se ne parla abbastanza.

È fondamentale che l’Italia il prima possibile, insieme ad altri paesi europei, si impegni maggiormente nell’affrontare questa crisi. Dobbiamo comprendere che la crisi dei rifugiati non è più una “emergenza” temporanea, ma una normalità. Il numero di persone in fuga da guerre, fame, cambiamento climatico e persecuzioni continua ad aumentare, e dobbiamo essere pronti ad affrontare questa sfida in modo più sostenibile e umano. Secondo la Banca Mondiale, entro il 2050 potrebbero muoversi forzatamente fino a 143 milioni di persone che attualmente vivono nei paesi dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e dell’America Latina. Invece noi continuiamo a chiamarla “emergenza”.

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