La colpa è stata di suo padre Luigi. O almeno così racconta la leggenda. È stato lui, una domenica pomeriggio come tante, a prendere per mano suo figlio e a guidarlo fino allo stadio di Milano. E lì, in fila davanti alla biglietteria, Silvio Berlusconi si era esibito in un numero inconsueto. Per una volta quel bambino era rimasto fermo immobile. Anzi, si era rannicchiato, si era fatto piccolo piccolo. D’altra parte l’obiettivo era poco ambizioso. Bisognava abbracciare la parsimonia, cercare di entrare in due con un solo biglietto. Un gesto ingenuo che il ragazzo proverà a riscattare per tutto il resto della sua vita, quando la sua autonarrazione da vincente diventerà ossessione, quando cercherà di amplificare con ogni mezzo la sua grandezza. È in quel pomeriggio indefinito nel dopoguerra italiano che Berlusconi nota per la prima volta quei due colori. Rosso e nero. Uno accanto all’altro. E se ne innamora immediatamente. Il calcio diventa un chiodo fisso, argomento di conversazione in famiglia dopo aver finito i compiti, terreno di scontro con i compagni che si erano convertiti a fedi diverse. Una religione laica da abbracciare in maniera più ideale che pratica. Perché anche se nessuno lo ha mai visto calciare sul serio un pallone, lui ha sempre rivendicato la propria competenza in materia.

All’inizio il Milan è una squadra frugale. Poi negli anni Cinquanta vince quattro scudetti. Solo che in quelle vittorie c’è qualcosa di disturbante. Berlusconi le subisce, non le impone. La gioia da anonimo tifoso non gli basta. Perché lui vuole essere il demiurgo del successo, il sovrano che dispensa gioie ottriate. Silvio ci prova nel 1971. Carraro annuncia la sua volontà di cedere il club. E Berlusconi si dichiara interessato. Solo che Silvio è giovane, forse troppo. Le sue ambizioni, già fuori scala, generano ammirazione. Ma anche diffidenza. A 35 anni ha iniziato la costruzione di Milano Due, un quartiere residenziale a Segrate. E ora vuole che il suo nome venga pronunciato da più bocche possibile. Carraro ascolta e valuta, poi declina. Berlusconi è vinto. Ma è solo una questione di tempo.

Il 1986 è l’anno buono. Il Milan di Giussy Farina si ritrova in una situazione economica disastrosa. Il Diavolo rischia di finire all’inferno, la sua storia di essere spazzata via. Serve un compratore. E Silvio Berlusconi si fa avanti per la seconda volta. Ora però non è più un palazzinaro semplice. Ora è il re delle televisioni private. Qualcuno lo chiama “Sua Emittenza”, altri “Mister Network”. Tutti, però, pronunciano quei nomignoli stando bene attenti a far tintinnare il più possibile il tono canzonatorio. Il 19 febbraio Berlusconi lancia “La Cinq”, la nuova televisione commerciale francese. All’inizio trasmetterà per tre ore al giorno. Poi, pian piano, diventerà a ciclo continuo. La festa è in grande stile. Partecipano attori, modelle, ballerini, celebrità. E anche Michel Platini. Il problema è che non basta una serata di gala per conquistare l’Europa. Serve altro. Così il giorno dopo Silvio acquista ufficialmente il Milan. Il suo staff si ferma per cinque ore nella sede del club. Ci sono il fratello Paolo, il futuro amministratore delegato Giancarlo Foscale, i funzionari della Fininvest Messinese e Vittadini.

E poi c’è Cesare Cadeo. Ha quarant’anni ed è uno dei volti di spicco di Canale 5. La sua faccia buca lo schermo, gli spettatori lo adorano. Lo seguono nelle trasmissioni con Mike Bongiorno. E in una serie di programmi sportivi. La sua presenza in sede non è così strana. Anzi, fa parte di un progetto ben preciso. Silvio vuole trasformare lo sport in spettacolo, vuole essere raccontato come un collezionista di successi. Il suo stile è aggressivo, i suoi modi decisi. La prima mossa della nuova proprietà è cambiare la serratura della sede del club. Una scelta che fa versare fiumi di inchiostro ai giornali. E che provoca anche qualche sorriso. Silvio è onnipresente, manda telegrammi ai suoi giocatori impegnati con le Nazionali, dimezza i diritti di prevendita delle partite. Fa di tutto per farsi notare. E ci riesce.

Pochi giorni più tardi annuncia il suo primo acquisto da presidente del Milan. È Dario Bonetti. Lo ha prelevato dalla Roma facendo andare su tutte le furie il presidente Dino Viola. Lo seguiranno in rossonero Massaro, Galderisi, Giovanni Galli e Donadoni. Berlusconi lo ha prelevato dall’Atalanta ma, soprattutto, l’ha strappato alla Juventus. Per riuscirci ha sborsato 4 miliardi e mezzo più i cartellini di Incocciati e Andrea Icardi. In tutto fanno quasi dieci miliardi. Una cifra che all’epoca è considerata oscena. Il 2 marzo Silvio arriva per la prima volta a Milanello. Sono le 13.03 quando il suo elicottero atterra nel cerchio di centrocampo del campo di allenamento. Dalla scaletta scendono Sua Emittenza, il figlio diaciassettenne Dudi, il loro autista e un tale Adriano Galliani. Prima di seguire Berlusconi era il vicepresidente del Monza. E per questo è considerato l’esperto calcistico della Fininvest. I modi sono teatrali, tutto deve essere ripreso. Perché ogni gesto è studiato per comunicare opulenza.

Silvio posa con Paolo Rossi poi cala il jolly. Consegna ai suoi giocatori gli stipendi arretrati di gennaio e febbraio. Più un calice d’argento firmato Cartier. Serve per brindare alle promesse sul futuro del club. Mentre volano i tappi di champagne Berlusconi arringa il gruppo. Non ci saranno cessioni, dice, ma almeno quattro acquisti importanti. Perché non conosce altro modo per rinforzare la sua squadra. Il passaggio chiave, però, è un altro. I fedelissimi rossoneri non saranno dimenticati. Avranno un futuro fuori dal calcio e dentro la Fininvest. Il confine fra sport e prodotto televisivo comincia a essere sempre più labile. Non si sa dove inizia l’uno e finisce l’altro. Una promiscuità che diventa simbolo di forza. Perché parlare del Milan vuol dire parlare soprattutto di Berlusconi. Il primo contatto con Liedholm non è dei migliori. Il Barone ha la lingua affilata. E ama sguainarla .”Berlusconi non è uno sprovveduto in fatto di calcio – dice. – Per lui l’esperienza compiuta come presidente e allenatore della sua squadretta, l’Edilnord, deve essere stata preziosa”.

Silvio stavolta è costretto a incassare. Anche se sotto sotto non gli dispiace affatto che qualcuno abbia tirato fuori quella storia. Quando ha 27 anni Berlusconi si avvicina al Torrescalla. È una squadra dell’Opus Dei che gioca nella categoria “Allievi”. Silvio decide di sponsorizzarla. E per ovvi motivi le cambia il nome in Edilnord. L’attaccante di quella squadra è Paolo Berlusconi, il terzino destro Fedele Confalonieri. L’allenatore, invece, si chiama Marcello Dell’Utri. Le foto dell’epoca mostrano la squadra schierata a centrocampo con alle spalle le gru che costruiscono un palazzo accanto all’altro. Quegli edifici sono la promessa di una crescita demografica ed economica, sono periferie che si espanderanno fino a perdere contatto con il centro. È su quei campi di terra che si forma la leggenda di Silvio come re Mida dello sport. La drammatizzazione permanente legata alla sua figura racconta di un allontanamento di Dell’Utri perché considerato troppo difensivo. Anche se il futuro senatore del Popolo delle Libertà gioca con il 4-3-3. Una versione che non piace a Marcello. “Non fui licenziato – raccontò – Feci carriera. Fui chiamato a Roma dall’Opus Dei per dirigere il centro sportivo Elis al Tiburtino”.

Silvio così si siede in panchina. Un presidente allenatore che anticipa l’idea di presidente operaio. L’Edilnord vince tre campionati consecutivi. Grazie soprattutto alle doti taumaturgiche del suo mister e proprietario. Anni dopo Berlusconi si vanterà di aver messo in piedi una squadra capace di infilare 20 passaggi uno dietro l’altro. Era il tiki taka ante litteram, un racconto omerico di un calcio totale che si è perso nel tempo. Berlusconi comincia a guardare con sospetto Liedholm. Lo svedese è eredità della passata gestione. E Silvio lo considera superato. Il ruolo di Nils stona con quello di un Milan proiettato nel futuro. E dopo un anno il Barone viene accompagnato alla porta. La svolta arriva nel 1987. In estate Berlusconi assume un nuovo tecnico. I due si erano incrociati nell’anno precedente. Allora il Parma che giocava in Serie B aveva battuto due volte il Milan in Coppa Italia. Al termine dell’incontro il presidente rossonero era sceso nello spogliatoio. Solo che si era infilato in quello avversario. Lì si era congratulato con il mister dei ducali. Gli aveva stretto la mano, si era interessato a quel suo gioco così innovativo.

Quell’allenatore si chiama Arrigo Sacchi. Un nome che Berlusconi non ha mai dimenticato. E così gli chiede un incontro. Restano a parlare dalle otto di sera fino alle tre di mattina. “Quando capii che voleva davvero ingaggiarmi – ha ricordato il tecnico – gli dissi: ‘lei o è un genio o è pazzo’”. Sacchi firma in bianco. “Mi avete dato fiducia, fate voi la cifra”. Durante il primo anno l’uomo di Fusignano ha un momento di difficoltà. Silvio entra nello spogliatoio e chiude la porta. “Signori – dice – questo è l’allenatore che ho scelto. Chi lo segue rimarrà, chi non lo segue andrà via“. Trenta secondi che cambiano la storia del Milan. A fine anno arriva lo scudetto. E Sacchi vince anche un’altra scommessa. Silvio aveva comprato il trequartista argentino Claudio Borghi. Prima lo aveva annunciato dicendo che era più forte di Maradona, poi lo aveva spedito in prestito al Como. Solo che ad Arrigo questo acquisto non piace proprio. “Non ero d’accordo perché Borghi si era allenato con noi, sapevo che era un pessimo professionista – ha raccontato – Andai da lui, era con Craxi: ‘Presidente, se vinciamo lo scudetto, Borghi non viene’. Lo vincemmo”.

Sacchi fa un nome solo: “Mi compri Frank Rijkaard e vinciamo tutto”. È vero. Nasce il Milan dei tre olandesi. È una squadra che rompe gli argini della storia e sconfina nella leggenda. Arrivano due Coppe dei Campioni, due Supercoppe, due Intercontinentali. Ma il Milan non si limita a vincere, innova, stravolge, codifica un nuovo calcio fatto di pressing, ritmo, fuorigioco. Al resto ci pensano gli investimenti pesanti. Galliani tranquillizza Sacchi. I soldi sono l’ultimo dei problemi, il budget un concetto piuttosto sfumato. Il nuovo Milan chiarisce subito un principio: tutto ha un prezzo. Soprattutto i sogni. Il mercato diventa una lanterna buona per proiettare la propria forza verso l’esterno. Alcuni colpi servono a rafforzare la squadra. Altri a indebolire le avversarie. Un principio che trova la sua sublimazione il 1° luglio del 1992. In serata il Milan annuncia l’acquisto di Gianluigi Lentini, uno dei talenti più puri del calcio italiano, ma soprattutto promessa bandiera del Torino.

È un colpo che sconvolge il mercato, che trasforma un trasferimento in un caso nazionale. Borsano ha firmato un preaccordo con Berlusconi con scadenza 30 giugno. L’affare si può chiudere a 14 miliardi. A patto che Lentini accetti la destinazione. Il calciatore è dubbioso, vuole rimanere a Torino. Così rifiuta. I granata si organizzano di conseguenza. Pur di tenere Lentini cedono Policano e Cravero. Qualcosa però cambia all’improvviso. Berlusconi manda un elicottero a prendere il calciatore e lo porta ad Arcore. Nella sua villa illustra programmi, racconta il futuro. E poi scopre la cifra messa nero su bianco sul contratto. Lentini trattiene per un attimo il fiato e prende in mano la penna. Poco dopo le 19 Galliani deposita il contratto in Lega. A Torino non si parla d’altro. I tifosi sono inferociti. Qualcuno raccoglie firme contro Borsano, altri assaltano la sede della società. “Borsano vendi tuo figlio”, cantano. “Se Lentini se ne va bruceremo la città”, gridano. Ma la contestazione tocca anche il calciatore. Una folla si raduna sotto la sede dell’Ansa dove Lentini ha rilasciato delle dichiarazioni. E quando il calciatore esce iniziano a lanciarli contro le monetine. Silvio ricostruisce il blasone dei rossoneri a colpi di miliardi. E si sente il fabbro della fortuna della sua squadra. Fare il presidente non gli basta. Lui vuole partecipare all’intero processo decisionale, vuole intervenire anche sulle abitudini dei suoi ragazzi. Nel 1988 si presenta a Milanello e chiede ai giocatori di astenersi dal sesso in vista della fine del campionato. Gullit risponde: “Presidente, io con le palle piene non riesco a correre”. La sua seconda scommessa ha la mascella di granito di Fabio Capello. L’ex centrocampista aveva sostituito Liedholm in panchina per qualche mese, poi si era dedicato ad altro. Il Cavaliere lo aveva trasformato nella figura apicale della Polisportiva Mediolanum: pallavolo, rugby, baseball e hockey sul ghiaccio. Fabio non era più un ex calciatore, non era più un allenatore. All’improvviso era diventato un manager d’azienda. Aveva seguito corsi da dirigente, programmi di gestione e sviluppo delle risorse umane. L’uomo del Milan era diventato l’uomo della Fininvest. E ora che si trova in panchina, Capello deve incassare un pugno dopo l’altro.

Donadoni lo accoglie con un poco caloroso “è fermo da quattro anni. Per il calcio moderno è come se non allenasse da vent’anni”. Qualcuno lo definisce “un opportunista duttile e intelligente”. A ottobre, invece, Franco Scoglio va addirittura oltre. La sua nomina è “un’offesa per l’intera categoria”, dice salvo poi ritrattare. La barzelletta di Fabio Capello come allenatore smette di far ridere in sei mesi. Nasce il Milan degli invincibili. Arrivano altri quattro scudetti e un’altra Champions League. Solo che più si riempie la bacheca del club, più il ricordo del suo passato da allenatore diventa ingombrante. Silvio vuole entrare direttamente nelle scelte dei suoi allenatori, vuole avere voce in capitolo sulla formazione. E rivendica in continuazione la bontà delle sue scelte. Soprattutto dopo la sua discesa in politica. I successi del Milan sono perfetti per raccontare il suo di successo. Un uomo destinato alla vittoria, un tuttologo che viene ancora prima degli specialisti. Le sue idee tattiche non sono sempre brillanti, ma alimentano quella narrazione continua da onnisciente. Il trionfo del club deve avere la sua impronta. E deve essere immediatamente riconoscibile. Il colpo da maestro arriva nel 2013. Domenica 24 e lunedì 25 febbraio si va alle urne per le politiche e proprio nella prima giornata di votazioni si gioca il derby di Milano. Il 31 gennaio Silvio annuncia l’acquisto di Balotelli. È un piccolo capolavoro. L’ex nerazzurro giocherà il derby e magari potrebbe anche segnare. I sondaggisti vanno in estasi. Ognuno ha nuove stime da lanciare. Ma sono tutti d’accordo: il nuovo colpo potrebbe regalare al Pdl anche due punti percentuali.

Quasi tutti i suoi allenatori sono in difficoltà. Non possono smarcarsi dalla sua presenza. E dalle sue idee tattiche mitragliate davanti a un microfono. Nel 1998 Zaccheroni parte con il tridente. E le cose non girano. Poi la storia cambia. Via una punta, dentro Boban dietro il tandem offensivo. Una modifica che porta al più insperato degli scudetti. Così il presidente prova a impossessarsi di quella scelta, dice di averla dettata lui all’allenatore. Zac smentisce. E arriva la separazione. La storia si ripete con Ancelotti. Silvio si intromette, pretende le due punte. Anche se il mister diventa famoso per il suo albero di Natale. Nel 2003, quando il tecnico emiliano vince la sua prima Champions League col Diavolo, succede qualcosa di surreale. Nell’appendice de “Il Cavaliere e il professore”, il nuovo libro di Bruno Vespa, vengono inseriti gli schemi che Berlusconi avrebbe preparato per la finale contro la Juventus. È una mossa che ha il sapore più dell’autoconvincimento che della rivelazione. Agli altri allenatori va addirittura peggio. Di Allegri, che ha portato a Milano l’ultimo scudetto, dice che “no el capisse un casso”. Montella viene accolto con un drammatico: “Volevo che sulla panchina restasse Brocchi. Ma ero in un letto d’ospedale, tra la vita e la morte. E mi dissero Montella”. I rubinetti sono chiusi ormai da tempo. Così nel 2016 arriva la cessione del club al misterioso imprenditore cinese Li Yonghong. È un addio prefetto. Perché l’inconsistenza del nuovo proprietario fa subito rimpiangere il presidente più vincente della storia del calcio. “Si parla tanto del Milan di Sacchi, del Milan di Capello, del Milan di Ancelotti: ma del Milan di Berlusconi non si ricorda nessuno?”, disse una volta il Cavaliere.

Un’esagerazione che contiene un fondo di verità. L’acquisto del Monza è l’ultimo atto della premiata ditta Berlusconi-Galliani. È un tentativo disperato di resistenza, un modo molto dispendioso per dimostrare che l’esperimento si può ripetere, che non è stato il Milan a rendere vincente Berlusconi ma il contrario. Il sogno è piratesco. L’uomo che ha finito per incarnare il potere ora si trova all’opposizione, un Capofortuna di Rino Gaetano condannato a convincere gli altri che la sua capacità sono ancora intatte. La storia sembra anche funzionare. Il Cavaliere porta il Monza in Serie B. Qui l’effetto revival diventa completo con l’acquisto di Balotelli. Silvio, Adriano e Mario, tre pianeti che sembrano essersi di nuovo allineati. Ma stavolta senza troppa fortuna. Il primo assalto alla Serie A fallisce. Ma è solo una questione di tempo. Perché nell’estate del 2022 il Monza sale nella massima categoria. Per la prima volta nella sua storia. “La promozione in Serie A del Monza mi ha commosso più di una vittoria in Coppa dei Campioni del mio Milan”, dice Silvio. È un’esagerazione, ma è esattamente quello che tutti vogliono sentire. L’inizio del campionato è una sofferenza continua. Cinque partite, cinque sconfitte. L’esonero di Stroppa, l’uomo della storica promozione, diventa inevitabile.

Berlusconi e Galliani decidono di puntare su Raffaele Palladino. Sembra una follia, invece è una scelta perfetta. La squadra vola. Fin da subito. La prima partita è contro la Juventus di Allegri. E il Monza vince 1-0. È il segnale che quando vuole intervenire Silvio sa ancora fare la cosa giusta. La partita che tutti aspettano si gioca il 22 ottobre 2022. Biancorossi contro rossoneri. A San Siro. Quello che deve essere il giorno della rivincita del Cavaliere si rivela un pomeriggio come tanti. Silvio non si siede in tribuna, non guida i suoi ragazzi. Ed non è un caso che il Monza viene travolto per 4-1 dal Milan. “Quando il Milan perde, ho il cuore distrutto – dirà prima della gara di ritorno – Quindi speriamo in un pareggio che non fa del male a nessuno. Del resto sono diverse le storie che mi legano ai due club: quando il Monza vince sono contento, batto le mani, ma non è ancora entrato nel mio cuore”. A dicembre, per la cena di Natale della sua nuova squadra, Silvio mischia due delle sue grandi passioni: calcio e battute spiazzanti. “Se vincete contro la Juventus vi faccio arrivare un pullman di troie!”, dice. Berlusconi è ancora Berlusconi. Ed è per questo che funziona. Il suo Monza lotta per entrare nella parte sinistra della classifica e si salva. Il Cavaliere ha avuto appena il tempo di sapere come è andata a finire questa storia. Perché l’uomo che ha stravolto il calcio italiano si è spento oggi, lasciando un vuoto fra i suoi sostenitori. Ma soprattutto fra i suoi avversari.

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