Le cellule cerebrali a forma di stella, chiamate astrociti, la cui reattività è facilmente individuabile tramite un biomarcatore del sangue, sono fondamentali per determinare la progressione della malattia di Alzheimer. Lo dimostra lo studio dei ricercatori della University of Pittsburgh School of Medicine, pubblicata su Nature Medicine. “Gli ultimi anni hanno visto un enorme aumento della nostra capacità di fare una diagnosi corretta della malattia di Alzheimer attraverso marcatori basati sulla pet o sull’esame del liquido cerebrospinale, che hanno permesso di riconoscere la malattia anche nelle fasi più precoci o nelle presentazioni atipiche; il recente impiego, al momento sperimentato in ambito di ricerca, di marcatori su sangue, permetterà nella pratica clinica di valutare la presenza delle proteine patologiche associate alla malattia di Alzheimer”, ha detto Matteo Pardini, ricercatore in Neurologia dell’Università di Genova che svolge attività clinica nell’ambito delle malattie neurologiche al Policlinico San Martino di Genova. Questo studio – ha affermato Pardini – evidenzia l’importanza di un marcatore su sangue per capire il contributo di un possibile nuovo target per la terapia”. La malattia di Alzheimer è la forma di demenza più frequente. Circa il 5-6 % delle persone sopra i 65 anni hanno un decadimento cognitivo e su 10 persone che hanno un decadimento mentale circa 6 hanno la patologia. In Italia sono almeno 1 milione le persone affette dalla malattia che causa progressiva perdita di memoria e demenza, privando i pazienti di molti anni di vita produttivi.

“La relazione tra l’attivazione dell’infiammazione e gli astrociti, cellule neurali che fanno parte del sistema nervoso, dimostra come, per capire la malattia, sia necessario concentrarsi non solo sul deposito delle proteine patologiche ma andare a caratterizzare la variabilità e la presenza di una risposta che infiammatoria anche grazie ai marcatori su sangue”, ha continuato Pardini.
A livello tissutale, il segno distintivo della malattia è l’accumulo di placche amiloidi, aggregati proteici depositati tra le cellule nervose del cervello, la presenza di una proteina anomala che si chiama beta amiloide e di ammassi di fibre proteiche disordinate, chiamati grovigli di tau, che si formano all’interno dei neuroni.

I ricercatori della University of Pittsburgh School of Medicine, per individuare i biomarcatori della reattività degli astrociti, la proteina acida fibrillare gliale o glia (GFAP), e la presenza di tau patologica, hanno analizzato il sangue di oltre 1.000 anziani non compromessi dal punto di vista cognitivo, in tre studi indipendenti. I risultati hanno dimostrato che solo coloro che erano positivi sia alla reattività dell’amiloide che a quella degli astrociti mostravano segni di sviluppo progressivo della patologia tau, indicando la predisposizione ai sintomi clinici del morbo di Alzheimer. I ricercatori hanno dimostrato che il deterioramento cognitivo può essere previsto da un esame del sangue. Una scoperta cruciale per la prevenzione e lo sviluppo di farmaci volti a fermare la progressione della malattia.

“Il nostro studio sostiene che il test per la presenza di amiloide cerebrale insieme ai biomarcatori ematici della reattività degli astrociti è lo screening ottimale per identificare i pazienti che sono più a rischio di progredire verso la malattia di Alzheimer”, ha detto l’autore senior Tharick Pascoal, professore associato di psichiatria e neurologia alla University of Pittsburgh School of Medicine. “Questo pone gli astrociti al centro come regolatori chiave della progressione della malattia, sfidando l’idea che l’amiloide sia sufficiente a scatenare la malattia di Alzheimer”, ha continuato Pascoal. Gli astrociti sono cellule specializzate abbondanti nel tessuto cerebrale. Proprio come gli altri membri della glia (GFAP), gli astrociti sono cellule immunitarie residenti nel cervello e sostengono le cellule neuronali fornendo loro sostanze nutritive e ossigeno e proteggendole dagli agenti patogeni. “Gli astrociti coordinano il rapporto tra amiloide e tau nel cervello come un direttore d’orchestra”, ha detto l’autrice principale dello studio Bruna Bellaver, professoressa associata post-dottorato alla Pitt. “Questo può essere un fattore di svolta per il campo, dal momento che i biomarcatori gliali, in generale, non sono considerati in nessun modello principale di malattia”. I risultati dello studio hanno implicazioni dirette per i futuri studi clinici sui candidati farmaci per l’Alzheimer. “Studi come questo – ha concluso Pardini – ci permetteranno di trovare delle nuove terapie per colpire l’interno della malattia e trovare quelle terapie più adeguate per la cura di questa malattia”-

Lo studio su Nature

Lucrezia Parpaglioni

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