Alla fine, ma proprio alla fine, lo spettacolo c’è stato. Onore a Primoz Roglic, dominatore di forza e di rabbia della ventesima tappa del Giro d’Italia 2023, la cronoscalata Tarvisio-Monte Lussari. Il Trofeo senza fine si arricchisce di un nome di prestigio, un grande del ciclismo odierno. Ma, va detto, l’edizione 106 della Corsa Rosa verrà ricordata praticamente solo per la sua impresa tra i boschi e le pendenze di una salita inedita, che gli ha permesso di ribaltare la classifica e sfilare il primato a Geraint Thomas. Che bello un Giro che si decide alla penultima tappa, certo: il problema è che nelle altre 19, per quanto riguarda la lotta per la maglia rosa, è successo davvero pochino. Anzi, quasi nulla. L’emblema è stato il tappone di venerdì, con l’arrivo sulle Tre Cime di Lavaredo dopo altri 4 Gpm. A fine corsa si è parlato soprattutto della scelta di Roglic di cambiare bici e scegliere la monocorona, segno che la strada aveva dato pochi spunti ed emozioni. Ecco, è stato un Giro d’Italia monocorona: la distanza minima in classifica tra i tre contendenti, Roglic, Thomas e Joao Almeida, ha tenuto la corsa bloccata sempre sullo stesso rapporto. È mancato il brivido, la follia: per dirla in modo ancora più semplice, non c’è mai stato l’attacco da lontano.

Alla fine il Giro d’Italia è stato deciso da una cronoscalata, vinta da Roglic ancora grazie a una questione di frequenza e di rapporti: lo sloveno della Jumbo si è esaltato pedalando sempre con estrema agilità, riuscendo alla fine a spezzare il sogno di Thomas di vincere il Giro all’età di 37 anni (nessuno ci è mai riuscito). Il gallese ha lottato ma alla fine si è dovuto arrendere alla superiorità di Roglic e a una pedalata troppo dura che nel finale è diventata legnosa. Lo sloveno d’altronde ha avuto un’unica défaillance sul Monte Bondone, mentre è sempre rimasto col gallese nelle uniche altre due tappe in cui i leader hanno provato a sfidarsi a viso aperto quanto meno negli ultimi chilometri: l’arrivo in Val di Zoldo e quello sulle Tre Cime.

Per carità, il Giro d’Italia si chiude con un podio di tutto rispetto. Roglic in carriera ha vinto tre edizioni consecutive della Vuelta di Spagna (nel 2019, 2020 e 2021), una Liegi-Bastogne-Liegi (nel 2020), una medaglia d’oro a cronometro ai Giochi olimpici 2020 di Tokyo. A 33 anni riscatta la beffa di La Planche des Belles Filles, quando in un’altra cronometro finale perse il Tour 2020 a scapito del connazionale Tadej Pogacar. E la sua commozione in cima al Monte Lussari dimostra come la maglia rosa sia ancora la più importante dopo quella gialla del Tour. Il secondo in classifica, il signor G, è un’icona del ciclismo, che con la vittoria del Giro avrebbe coronato una carriera già strepitosa. Il portoghese Joao Almeida, terzo, ha 24 anni e in futuro potrà vincerlo un Grande Giro. C’è un ma.

L’impressione è che in fondo, e forse era pure scontato, si sia avvertita tremendamente l’assenza di Remco Evenepoel. Il suo ritiro in maglia rosa per Covid ha privato il Giro del corridore più imprevedibile. E l’attendismo che ha caratterizzato la corsa cozza terribilmente con il ciclismo a cui i campioni di oggi ci hanno abituato. La attenuanti ci sono: i ritiri appunto per Covid, la pioggia torrenziale, la classifica così corta. Ma era lecito attendersi altro. Anche se non è detto che il Tour a luglio sarà in grado di regalare uno spettacolo migliore: dipenderà da Vingegaard e dalla sua capacità di essere nuovamente un rivale all’altezza di Pogacar. Negli occhi c’è ancora la sua impresa dell’anno scorso, tanto bella quanto imprevedibile. Anche la Grand Boucle rischia di non offrire quell’epica antica che oggi è tornata ma (forse bisogna rassegnarsi) è al momento una prerogativa principalmente delle corse di un giorno.

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