Tra i magistrati crescono le voci contrarie all’abolizione del reato di abuso d’ufficio, la riforma promessa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio su cui è stato appena trovato un accordo politico all’interno della maggioranza. L’abrogazione o lo svuotamento dell’articolo 323 del codice penale “rappresenterebbe un vulnus agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia in tema di corruzione con la convenzione di Strasburgo“, ha detto giovedì il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, audito dalla Commissione Giustizia della Camera, che sta esaminando le tre proposte di legge in materia presentate da Forza Italia e da Azione. “Credo sia doveroso richiamare l’attenzione sullo stato di profondo e diffuso condizionamento criminale dei componenti della pubblica amministrazione”, sottolinea Melillo. “Basterebbe guardare allo stato delle amministrazioni sciolte in trent’anni per accertati condizionamenti della criminalità mafiosa per toccare la concretezza dei problemi dell’assenza di ogni filtro, controllo, prevenzione”. In un quadro del genere, cancellare la fattispecie di abuso d’ufficio – che esiste in tutti gli altri Paesi sviluppati – esporrebbe l’Italia “al rischio di apparire fonte di indebolimento del sistema di incriminazione”, proprio mentre il Paese “si appresta a utilizzare ingenti risorse”, quelle del Pnrr, che sono anche il frutto di “tasse pagate da cittadini di altri Stati europei“, ricorda il capo della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.

Il “giusto obiettivo” di ridimensionare la cosiddetta “paura della firma“, avverte Melillo, “non può esaurirsi nell’aggravare la frammentazione e l’incoerenza del sistema dell’incriminazione”. E anche quello dell’invasione nella sfera di discrezionalità dei sindaci “è un tema che avrebbe più credibilità se fosse accompagnato dalla rivendicazione dell’introduzione nel sistema di controlli interni alla pubblica amministrazione, in grado di tenere lontano il rischio dell’intervento giudiziario. È invece questo uno dei temi che resta fuori dal dibattito politico. Occorre riconoscere che i controlli nella pubblica amministrazione non esistono e quelli previsti dalla legge sono ridotti a mera cosmesi“, incalza il magistrato. Peraltro, ricorda, “i rischi di espansione di una discrezionalità giudiziaria rispetto all’attività amministrativa, dopo la riforma del 2020 (che ha ristretto il campo d’applicazione della norma, ndr) sono confinati in ambiti assolutamente marginali. E questo riguarda non solo l’abuso di ufficio ma anche il traffico di influenze illecite”, un’altra fattispecie che il governo vorrebbe ridimensionare o abrogare, “i cui termini sono stati ricondotti nelle salde mani dei principi costituzionali di tassatività delle previsioni“. Infine, ricorda, a lamentare la paura della firma sono soltanto i politici che governano, mentre quando passano all’opposizione diventano “spesso i promotori delle denunce“.

Giovedì la Commissione ha ascoltato anche il pm Danilo Ceccarelli, vicecapo della Procura europea (Eppo), che ha ribadito che “l’abrogazione tout court dell’abuso d’ufficio non sarebbe conforme alla normativa internazionale”. Già durante le audizioni della scorsa settimana, infatti, l’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo aveva ricordato che l’esistenza del reato di abuso d’ufficio nel nostro ordinamento è vincolata da una convenzione Onu, la Convenzione di Merida contro la corruzione, che all’articolo 19 impone di “conferire carattere di illecito penale al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della propria posizione, ossia di compiere, o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi, al fine di ottenere un indebito vantaggio per sè o per un’altra persona o entità”. “Provate a confrontarlo con il nostro articolo 323 del codice penale e ditemi cosa si può toccare senza violare questa norma. A dirla tutta, forse non copriamo nemmeno tutto ciò che questa norma richiede”, ha aggiunto Davigo. Dopo la riforma varata nel 2020, infatti, restano punibili solo violazioni di regole “espressamente previste dalla legge (…) e dalle quali non residuino margini di discrezionalità. E modificare ancora i contorni della fattispecie uscendo dai limiti dettati dalla Convenzione, ha avvertito l’ex pm, sarebbe “un illecito di diritto penale internazionale“.

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