Il 17 maggio 1973 si compie la strage alla Questura di Milano che provoca la morte di 4 persone e il ferimento di altre 46. È un’altra strage nera che l’inchiesta degli anni Novanta del giudice istruttore Guido Salvini individua nell’ambiente ideativo della cellula veneta di Ordine nuovo a cui è attribuita anche la responsabilità della strage di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969 e della strage di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974.

Si tratta dell’unica strage con l’attentatore colto in flagranza di reato. L’uomo si chiama Gianfranco Bertoli, si definisce anarchico individualista, ed è armato di una bomba a mano – in dotazione all’esercito israeliano – che lancia nel mucchio tra le persone che aspettano di entrare nella sede della Questura.

Quel giorno, nel cortile della Questura, si inaugura un busto dedicato al commissario Luigi Calabresi, ucciso un anno prima per mano di un militante di Lotta continua. A presiedere alla cerimonia, c’è il ministro dell’Interno Mariano Rumor che ai tempi della strage di Piazza Fontana era presidente del Consiglio. È proprio Mariano Rumor, in origine, l’obiettivo dell’attentato. Gli ordinovisti affermeranno, in sede giudiziale, che l’esponente democristiano si era impegnato con loro nel 1969 per proclamare lo Stato di emergenza dopo la strage di Piazza Fontana, ma Rumor era poi venuto meno all’impegno.

Per capire la ragione che devia l’azione dell’attentatore, occorre risalire alla complessa e fragile personalità di Gianfranco Bertoli. Innanzitutto l’uomo non è un anarchico ma, nella ricorrente trama di provocazione del tempo, un esponente di destra che si finge di estrema sinistra. Già implicato in traffici di armi con il Fronte anticomunista, Bertoli aveva collaborato negli anni Sessanta con il servizio segreto militare italiano. Dal 1971 vive in Israele dove riceve visite di esponenti dell’estrema destra francese Jeune revolution mantenendo anche contatti con la sede di Marsiglia del servizio segreto francese (Sdece).

Sono molto strette le relazioni tra Bertoli e l’estrema destra di Ordine nuovo che compie l’addestramento dell’uomo in un appartamento in via Stella a Verona alternando lusinghe (una promessa di pagamento), alcol (a cui era dedito) a test più duri che dovevano prepararlo agli interrogatori di polizia. Bertoli è una persona facilmente strumentalizzabile. Prima dell’azione è agitato, va in un bar, si cambia i calzini, beve un cognac quasi volesse sfuggire al compito impartitogli. L’auto di Rumor intanto sfila via, sembrerebbe tutto finito invece l’azione, tragicamente, si compie ugualmente.

Sembra un’improvvisazione, Bertoli si lascia prendere facilmente dalla polizia (e per lui era prevista una via di fuga con un’auto ad attenderlo) fino a recitare una parte sacrificale, pronunciando quel “fatemi fare la fine di Pinelli”, evocando l’anarchico milanese morto innocente il 15 dicembre 1969, proprio alla Questura di Milano, in circostanze mai definitivamente chiarite: gettato dagli agenti dal quarto piano o suicida?

Sono trascorsi tre anni e mezzo dalla strage di Piazza Fontana e l’opinione pubblica ormai non crede che siano di estrema sinistra gli attentatori. Poco più di un mese prima, il 7 aprile 1973, a un altro terrorista nero, Nico Azzi, esplode in mano l’ordigno che stava piazzando sul treno Torino-Roma, non prima di essersi aggirato per gli scompartimenti mettendo in mostra il quotidiano Lotta continua. Lo smascheramento delle provocazioni è ormai palese. Chi persiste a credere alla messa in scena dell’attentatore anarchico è il prefetto di Milano Allitto Bonanno che immagina di potere riavvalorare la pista rossa su Piazza Fontana, un altro obiettivo al quale puntano gli stragisti.

Come tutte le vicende legate alle stragi, le trame si sovrappongono senza contraddirsi. C’è una traccia internazionale dietro l’attentato, legata a spostare verso Israele l’asse della politica estera italiana in quel momento vicina agli arabi. Il numero due del Sid, Gianadelio Maletti, su chiare posizioni filo israeliane, verrà rinviato a giudizio per avere ostacolato le indagini. Sulla linea di collaborazione tra il Sid e il Mossad israeliano si esprimono i giudici che indagano e l’esponente democristiano Paolo Emilio Taviani.

Nel gorgo della pianificazione, contando sul sommovimento portato dalla strage, anche una trama golpista. Nonostante sia stato condannato il solo Bertoli, la Cassazione giudica “indubitabile” che l’attentato sia stato organizzato da Ordine nuovo, ma nei confronti dei mandanti non c’è nessuna condanna, pur nella constatazione della presenza di “elementi di un certo spessore”.

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